Sulla
controfacciata della chiesa della SS. Annunziata, si trova il
grande affresco raffigurante il Giudizio Universale1
(fig. 1
).
Il ciclo, come consuetudine nell'iconografia italiana
e in base alla falsa etimologia che collegava la parola occidens
al verbo occidere e quindi l'occidente alla morte, è
stato dipinto sul lato ovest dell'edificio, dove simbolicamente
il sole al tramonto illumina la grande scena dell'ultima notte
del mondo2.
La
figura del Cristo Giudice è ritratta all'interno di una
mandorla, che segna una separazione netta tra Gesù e la scena a
cui prende parte. Egli domina per le enormi proporzioni al
centro della composizione; la grandezza della sua immagine non
è dovuta ad un semplice esercizio stilistico o estetico, ma
serve a manifestare palesemente agli occhi dei credenti la
visione
trionfale di Dio3. Il Cristo protagonista della scena
è sì il Giudice, ma soprattutto il Cristo resuscitato
trionfante sulla morte: per questo la sua immagine si impone
su tutte le altre all'interno della raffigurazione. È questa la
traduzione in chiave iconografica delle visioni dell'Apocalisse
e di Ezechiele, entrambe riferite alla apparizione del trono
divino circondato dallo splendore dell'iride4.
L'arcobaleno è il simbolo della concordia, della alleanza
sancita da Dio con tutti gli esseri animati al termine del
Diluvio Universale narrato nel Genesi (9, 8-17P. Il Cristo si
offre allo sguardo dei credenti avvolto dal simbolo di quel
patto che Dio Padre ha definito perpetrici e che ha esteso a
tutte le generazioni future. La sua rappresentazione sottolinea
la forza della misericordia divina che non fa decadere
l'alleanza con gli uomini neanche nel momento decisivo per il
destino dell'umanità. |
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Cristo
ha lo sguardo fisso, impenetrabile, il volto incorniciato da una
aureola crociata che manifesta la sua divinità; mostra le
piaghe della propria Passione, a ricordo dello stupore degli
apostoli e dell'incredulità di san Tommaso al momento della sua
apparizione dopo la resurrezione:
Mentre
parlavano di queste cose, Gesù apparve in mezzo a loro e disse:
La pace
sia con voi! Essi,
sbigottiti e pieni di timore, credevano di vedere uno spirito.
Ma
egli disse loro: Perché siete così turbati e i dubbi affiorano
nei vostri cuori? Guardate le mie mani e i miei piedi, sono
proprio io. Palpatemi e osservate, uno spirito infatti non ha
carne ed ossa come vedete che ho io. Dopo avere detto questo,
mostrò le sue mani e i suoi piedi (Luca, 24, 36-40).
Se
non vedrò nelle sue mani il segno dei chiodi e non metterò il
mio dito al posto dei chiodi e la mia mano nel costato, non
crederò (Giovanni, 20, 25) 6
Non
è casuale la sproporzione delle mani e dei piedi del Cristo
rispetto al corpo, sproporzione volta a sottolineare
maggiormente i segni della Passione. Anche la posizione delle
mani è significativa: la destra offre il palmo agli eletti in
segno di accoglienza; la sinistra, rivolta verso i dannati,
mostra il dorso in segno di rifiuto. La piaga del costato è
esibita, secondo consuetudine dell'iconografia italiana,
attraverso una piccola lacerazione sulla tunica. Le piaghe,
insieme agli strumenti della Passione, sono i segni in virtù
dei quali egli giudica l'umanità: sono simbolo di salvezza per
i giusti, simbolo di condanna per gli empi.
Ai
lati del Cristo sono raffigurati gli apostoli, seduti su due
stalli, con i piedi posati su una predella - è un segno
onorifico, non posano i piedi direttamente in terra e questo
manifesta la loro superiorità rispetto al resto degli uomini -
e partecipano al tribunale divino in qualità di consiglieri;
l'immagine è un chiaro richiamo ai versetti evangelici di Luca
(22, 28-30):
Voi
siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; ed io
preparo per voi un regno, come il Padre mio ha preparato un
regno per me, affinché voi mangiate e beviate alla mia mensa
nel mio regno e vi sediate sopra dei troni per giudicare le
dodici tribù d'Israele.
Primo
in ordine tra gli apostoli è san Pietro, alla destra del
Cristo; alla sua sinistra san Paolo. Entrambi sono riconoscibili
dagli attributi che tradizionalmente li hanno sempre
contraddistinti: capelli crespi, tonsura, barba ispida e
corta, le chiavi in mano il primo; la lunga barba scura e la
spada il secondo.
A
fianco dei due apostoli l'affresco è mutilo; si vede appena,
accanto a Pietro, sant'Andrea. Questi è riconoscibile grazie
all'iscrizione nel cartiglio posto ai suoi piedi e all'attributo
che lo identifica inequivocabilmente, ovvero la croce. Di ciò
che avrebbe dovuto rappresentare i rimanenti apostoli è
visibile soltanto la sinopia degli stalli.
Alle
spalle del Cristo si può ancora ammirare, attraverso le sinopie
rimaste, la guardia angelica formata dai serafini oranti in
ginocchio. L'immagine degli angeli alle spalle del Giudice non
è una creazione propria delle raffigurazioni del Giudizio
Universale. Essa è stata mutuata dall'arte profana che, a
partire dal IV secolo, rappresentava le figure depositarie
dell'autorità e del potere attorniate dai propri soldati. I
serafini che affiancano il Cristo riproducono la medesima
immagine dell'imperatore con le sue guardie armate.
A
sottolineare l'idea di accoglimento/rifiuto dato dalla posizione
delle mani del Giudice sono raffigurati due cartigli - uno alla
sua destra, sulla predella dove sono posati i piedi di san
Pietro, e uno alla sua sinistra, sulla predella accanto ai piedi
di san Paolo - che recitano: «Venite benedicti patris mei,
percipite regnum quod pro vobis paratimi est ab origine mundi»
(«Venite, benedetti del Padre mio, prendete possesso del regno
preparato per voi dalla creazione del mondo»: Matteo, 25, 34);
«Ite maledicti in ignem eternum quia diabolis paratum est pro
vobis» («Andate, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per
voi e per i demoni»: Matteo, 25, 41; passi lievemente
modificati). Come descritto nel Vangelo di Matteo a proposito
del Giudizio Finale8, Cristo accoglie alla propria destra e
respinge alla propria sinistra; la sua posizione frontale
diviene allegoria di un punto di equilibrio, garanzia di
imparzialità.
Subito
sotto la schiera degli apostoli due angeli suonano la tuba (figg.
2-3)
a cui è legata una bandiera con croci vermiglie. I
cartigli raffigurati, che sembrano uscire dagli strumenti
musicali come una trasposizione grafica del suono, recitano: «Venite
ad Dominum paratum quia ipse iudicabit vos» («Venite presso il
Signore, che è pronto, poiché egli stesso vi giudicherà»:
cartiglio a sinistra);
«Surgite mortili et defuncti et venite ad juclicium» («Risorgete,
morti e defunti, e venite al giudizio»: cartiglio a destra).
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Siamo
di fronte ancora una volta alla traduzione in immagini di
versetti evangelici: «Egli manderà i suoi angeli che con la
tuba a gran voce raduneranno i suoi eletti dai quattro venti, da
una estremità all'altra dei cieli» (Matteo, 24,31 ); «Allora
manderà i suoi angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro
venti, dall'estremità della terra lino
all'estremità del cielo» (Marco, 13,27)9. |
Alla
destra del Cristo è raffigurata la resurrezione dei morti (figg.
4-5).
Dai sepolcri aperti emergono uomini e donne dai
corpi incorrotti9: alcuni pregano con le mani
giunte, altri sembrano in procinto di uscire dai sarcofagi,
altri ancora, quasi inconsapevoli di ciò che sta accadendo,
sembrano svegliati di sorpresa dalla tromba dell'angelo. Scrive
Emile Male: |
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L'arte
nel Medioevo non ama la nudità e quando può la evita; ma su
questo punto era necessario seguire l'insegnamento della Chiesa.
L'uomo deve uscire dalla terra cosi come Dio lo ha tratto
all'inizio del mondo; in quel giorno ogni essere realizzerà se
stesso e raggiungerà, ognuno secondo la sua misura, la bellezza
perfetta. I sessi ci saranno, anche se diventati inutili, ma
serviranno a manifestare l'onnipotenza di Dio, e abbelliranno
con la loro difformità la città eterna. Del resto gli uomini
non avranno nel momento della resurrezione l'età che avevano
nel giorno della morte; se così non fosse non potrebbero
raggiungere quella bellezza che è la legge suprema di ogni
creatura. Essi rimarranno al di sotto del loro tipo e lo
supereranno, e rinasceranno tutti, sia che siano morti vecchi o
fanciulli, con l'età
perfetta dei trent'anni. L'umanità in tutto infatti deve
assomigliare al suo di vino
esemplare. Gesù Cristo, che trionfò sulla
morte proprio a quella età10.
In
posizione centrale, sotto la mandorla, è raffigurata la Déesis
(fig.
6) (la preghiera, l'intercessione): inginocchiati su due
piccole nuvole la Vergine (fig.
7) e san Giovanni Battista,
primi testimoni del mistero dell'Incarnazione, sono gli
intercessori che pregano per il perdono dei peccatori ai piedi
del Cristo.
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Poco
più in basso, sempre al centro della raffigurazione del
Giudizio Universale, è l'Etimasia (fig. 6):
un altare quadrangolare su cui sono posati la croce e gli
strumenti della Passione (tre chiodi, la corona di spine, la canna con la spugna e il
recipiente con l'aceto, la lancia, due flagelli, la colonna su
cui Gesù sarebbe stato legato e percosso). L'Etimasia è una
rappresentazione simbolica del corpo di Cristo
e prende forma attraverso l'altare sacrificale su cui sono
posati gli strumenti del suo olocausto. E un'immagine che nelle
raffigurazioni del Giudizio Universale compare dal XIV secolo;
in origine al posto dell'altare era raffigurato un trono vuoto,
in allusione a quello citato nel Salmo 9, 8-9: «Ecco il Signore
sta assiso in eterno; ha eretto per il giudizio, il suo trono.
Giudicherà il mondo con giustizia, sentenzierà sui popoli con
equità»12. |
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Sopra
l'altare - dettaglio insolito nelle raffigurazioni pittoriche
del Giudizio
Universale e proprio invece dei cicli pittorici apocalittici -
sono posati in fila sette candelabri, a ricordo della prima
apparizione del Figlio dell'Uomo tra i sette candelabri d'oro
presente nell'Apocalisse (1, 12-13 ): «Io mi voltai per vedere
la voce che mi parlava e, appena voltato, vidi sette candelabri
d'oro, e in mezzo ai candelabri Uno che rassomigliava al Figlio
dell'Uomo, vestito di una lunga veste e cinto di una fascia
d'oro sul petto»13.
Anche
questa immagine, che evoca una delle teofanie descritte nel
libro attribuito all'evangelista Giovanni, è da interpretare
come l'apparizione del Cristo resuscitato, come rivelazione
della sua gloria presente e della gloria degli eletti.
Sotto
l'altare sono raffigurate delle figure maschili nude (fig.
8),
in posizione frontale e con il sesso ben evidente. Sono in
piedi, oranti, alcune con le mani giunte, altre con le braccia
incrociate e il palmo delle mani posato sulle spalle; hanno gli
occhi aperti e lo sguardo esitante di chi è in attesa di un
evento; ai loro piedi una scritta recita: «Vindica sanguinem
nostrum Domine Jesu Christe, dixerunt Innocentes quia mortili
fuerunt propter amorem Dei». E una parafrasi della preghiera
dei martiri Innocenti presente nell'Apocalisse (6,
9-10): «Quando
l'Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l'altare
le anime di quelli che erano stati sgozzati a causa del
vangelo di Dio e per la testimonianza che avevano dato. Essi
gridarono a gran voce dicendo: Fino a quando, o Maestro santo e
verace, tarderai a far giustizia e a chiedere conto del nostro
sangue a coloro che abitano la terra?»14.
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I
fanciulli vittime della strage di Erode, che la pietà popolare
venerava come i primi martiri cristiani, furono chiamati
Innocenti perché acquistarono l'innocenza con il sangue del
loro martirio; questo, equiparato al battesimo con l'acqua, li
privò del peccato originale15. Essi attendono impazienti sotto l'altare
la resurrezione dei morti nel giorno della venuta del Redentore16.
La scena del Giudizio è in fieri, i martiri sono nudi,
Cristo ha fatto ritorno, ma la resurrezione dei morti non è
ancora compiuta. Essi, a differenza degli Innocenti raffigurati
nel Giudizio Universale di S. Maria Donnaregina (Napoli, prima
metà del XIV secolo), non hanno neanche le stolae, le
vesti bianche che vengono date loro in attesa del compimento del
Giudizio. Quanto scritto in Apocalisse, 6,11 («Allora fu data a
ciascuno di essi una veste bianca e fu detto loro di pazientare
ancora un po' di tempo, fino a tanto che fosse completo il
numero dei loro compagni e dei loro fratelli che devono essere
messi a morte come loro») ' ' non viene in questo caso
riprodotto in immagini; lo svolgimento del Giudizio è solo al
suo esordio.
Più
in basso, una splendida rappresentazione della Gerusalemme
Celeste (figg.
9-10):
all'interno di una cinta muraria turrita
c'è Abramo [Abraam), affiancato dai patriarchi Isacco ( Ysahac)
e Giacobbe18. L'immagine di Abramo che accoglie
nel proprio grembo gli eletti, assai diffusa nel Medioevo per
indicare in modo sintetico il paradiso, trae origine dal
racconto del ricco epulone
presente nel Vangelo di Luca (16,22);
«Avvenne che il povero morì e fu portato dagli angeli
nel seno di Abramo»19.
Questo passo fu inizialmente
riferito dagli esegeti al limbo dei patriarchi, poi con sant'Agostino
al paradiso20;
questa interpretazione si impose nel Medioevo con san Tommaso21.
Così, seguendo alla lettera il passo evangelico, il
paradiso fu rappresentato dal Patriarca con Lazzaro seduto sulle
ginocchia, illustrazione che poi si estese a tutte le anime dei
giusti, raffigurate non sulle ginocchia, ma su un drappo che
Abramo sorregge. Fu l'arte bizantina a porre, come in questo
affresco, accanto alla figura di Abramo quella dei patriarchi
Isacco e Giacobbe22. |
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I
tre sorreggono in grembo, avvolti in un panno candido, gruppi di
eletti nudi: alcuni di essi, contraddistinti dalla tonsura sul
capo, sono ecclesiastici. Alcuni sono in preghiera (hanno le
mani giunte), altri sono intenti a raccogliere i frutti, o
fiori, del paradiso e a offrirli ai propri compagni. Questa
illustrazione rievoca, con un significato positivo, antitetico,
l'episodio relativo al peccato originale narrato dal Genesi (3,
6-7)23 e spesso tradotto nel Medioevo anche in
immagini. Il gesto del raccogliere e porgere i fiori/frutti del
paradiso compiuto dagli eletti ospitati sul grembo dei
patriarchi è uguale a quello - spesso raffigurato nel corso dei
secoli - di Eva, che tende la mano verso il frutto proibito
dell'Albero della Scienza (l'Albero del Bene e del Male) e che
poi porgerà ad Adamo. Gli eletti, testimonian za del ritorno
dei giusti al paradiso perduto («al vincente darò da mangiare
il legno della vita che si trova nel paradiso di Dio mio»:
Apocalisse, 2, 7 )24, ripetono lo stesso gesto per
cui i progenitori furono cacciati da quel luogo.
Sempre
in relazione alla flora presente nel giardino della Gerusalemme
Celeste, bisogna notare, ai lati della torre della città, le
due palme cariche di frutti che svettano rispetto al resto della
vegetazione paradisiaca. La palma «è l'albero del paradiso per
eccellenza, per le sue foglie sempre verdi, e perché in greco
la stessa parola designa le fenice, simbolo di eternità; è
sinonimo anche degli eletti in paradiso per il Salmo 91, 13:
iustus ut palma florebit, sicut cedrus Libani multiplicabitur»25
Le
palme sono due, come forse due sono gli Alberi della Vita a cui
allude il passo, di non facile interpretazione, dell'Apocalisse
(22, 2): «In medio plateae eius et ex utraque parte fluminis
lignum vitae» («In mezzo alla piazza della città e sulle due
rive del fiume sta l'Albero della Vita»). Difficile stabilire
se l'autore dell'affresco abbia voluto rappresentare con le
palme l'Albero della Vita e per motivi estetici e compositivi
abbia dovuto far cogliere agli eletti i frutti di altre specie
arboree o se invece le palme siano semplicemente gli alberi
tipici del paradiso ma non necessariamente allegoria dell''Arbor
vitae rappresentato forse dai cespugli a cui attingono gli
eletti.
Forse
il giardino paradisiaco, con la totalità di tutta la sua flora,
rappresenta l'allegoria della ricompensa per i giusti, l'Arbor
vitae a cui si contrappone, alla medesima altezza
dell'affresco, ma nel settore dedicato all'inferno, l'albero
secco avvolto dalle fiamme e dalle tenebre: l'Albero del Male26.
Al
giardino del paradiso, e quindi all'Albero della Vita, dono
divino per gli eletti (sia esso rappresentato dalle palme o dai
cespugli da cui i beati colgono i frutti), corrisponde, nella
rappresentazione dell'inferno, l'Albero del Male, con i suoi
rami recisi avvolti dalle fiamme: «Già la scure è posta alla
radice degli alberi: ogni albero, dunque, che non porta buon
frutto, sarà tagliato e gettato nel fuoco» (Matteo, 3, 10)27.
E
i frutti di questo albero sono proprio i peccatori appesi ai
rami secchi: l'omicida, il bestemmiatore, il ladro, la ruffiana,
il sacrilego, il fornicatore, il traditore, il falso testimone (fig. 11). |
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Ma
torniamo alla descrizione del paradiso: la Gerusalemme
raffigurata, in particolare attraverso l'illustrazione delle
figure dei tre patriarchi all'ingresso del paradiso, ricorda
quella descritta in alcuni passi dell'Apocalisse apocrifa di
Paolo, più nota come Visio Pauli28, assai
diffusa nel Medioevo:
Vidi
tre uomini che venivano da lontano, splendidi in bellezza,
simili nel volto al Cristo, e le loro forme erano fulgenti, e
vidi i loro angeli. E chiesi: Chi sono costoro Signore? Mi
rispose: Sono i Padri del popolo Abramo, Isacco e Giacobbe. Ed
essi mi si fecero vicino, mi salutarono e dissero: Salute Paolo,
prediletto di Dio
e degli uomini. Benedetto è colui che sopporta violenza per
amore di Dio. E
Abramo rispose e disse:
Questo è Isacco, mio figlio, e Giacobbe, il mio prediletto,
e noi conoscemmo il Signore
e lo seguimmo, Benedetti tutti coloro che hanno prestato
fede alla tua parola, perché erediteranno il regno di Dio
attraverso fatiche e mortificazione, santificazione e umiltà,
carità e mansuetudine e retta fede nel
Signore. Anche noi fummo devoti al Signore che tu annunzi e
abbiamo stabilito che andremo verso tutte le anime di coloro che
credono in lui e le assisteremo come i padri assistono i
propri figli29'.
I
patriarchi Isacco, Abramo e Giacobbe sembrano proprio in
procinto di accogliere le anime che, guidate da san Pietro, si
accingono ad entrare nella Gerusalemme Celeste,
dall'architettura simile ad una città medievale, per godere del
privilegio della visione beatifica.
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Due
schiere di eletti convergono verso la porta del paradiso, dove
san Pietro le accoglie per farle entrare: «Beati coloro che
lavano le loro vesti, per aver diritto all'Albero della Vita ed
entrare nella città per le porte!» (Apocalisse, 22, 14)30.
Pietro, come tradizione, impugna nella mano destra le chiavi,
ovvero il simbolo della doppia giurisdizione (quella terrena e
quella celeste) che Gesù conferì alla
Chiesa attraverso l'apostolo e i suoi successori. Egli stesso,
raffigurato alla porta del paradiso, è un simbolo: rappresenta
il potere esclusivo della
Chiesa cattolica di far accedere gli uomini alla vita eterna
attraverso i sacramenti (fig.
14). |
Due
angeli, affacciati alle finestre della Città Celeste, spargono
petali di fiori sopra gli eletti (fig.
12).
Quattro torri, che
simboleggiano i quattro Vangeli, difendono l'accesso alla
Città.
Le
schiere alla destra della porta del paradiso sono formate da
sante donne, un papa (il personaggio che ha per copricapo il
triregno ed è preso per mano da san Pietro), vescovi,
ecclesiastici (figg. 16
e
14): alla sinistra della porta è
raffigurata una prima schiera eli santi (fig.
9). Essi sono:
santa Caterina di Alessandria (con la ruota del martirio voluto
per lei dall'imperatore Massenzio); san Leonardo di Nobiliacum
(Limoges),
riconoscibile perché impugna una catena con due ceppi31;
sant'Antonio da Padova
(con il saio francescano e il libro in
mano); san Giacomo Maggiore (che impugna il bastone del
pellegrino); san Benedetto, riconoscibile dall'abito monastico e
dalla lunga barba32 (figg. 13
e
9).
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La
seconda schiera di eletti è costituita da uomini pii, tra cui
spiccano alcuni regnanti, riconoscibili dalle teste coronate, lo
scettro e gli abiti regali (fig.
15). |
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La
raffigurazione delle schiere dei beati in cui compaiono santi,
monarchi, ecclesiastici e sante donne è in linea con la
tradizione iconografica del Giudizio
Universale, tradizione che ritrae genericamente i giusti di ogni
rango mentre vengono accolti in paradiso. Tuttavia alcuni
storici dell'arte riconoscono nelle
figure dei re eletti gli angioini Ladislao di Durazzo ( 1390-1414)
e Carlo III, suo predecessore (1381-1386).
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Secondo
Giuseppe Scavizzi
Nella
schiera dei beati sono riconoscibili due gruppi di personaggi
evidentemente di corte, dame
e cavalieri nobilmente vestiti, e tre uomini, due dei quali coronati,
reggenti nella mano lo scettro reale. 11 giglio angioino che
chiaramente sormonta due
degli scettri di questi personaggi offre già un riferimento
cronologico, per
quanto di raggio assai vasto, dimostrando che l'affresco fu
eseguito ancora entro
il periodo di dominazione angioina, o quanto meno, volendo
considerare il periodo di interregno, prima dell'avvento
di Alfonso d'Aragona. Giacché però non compare fra i defunti
Giovanna II ma compaiono invece due monarchi ( uno dei quali
sarà necessariamente Ladislao, non potendosi supporre che
l'affresco sia anteriore al 1390, anno in cui quell'ultimo
rampollo angioino, giovanissimo, venne incoronato re di Napoli),
il Giudizio dovrà situarsi entro la data di morte di Ladislao,
che fu nel 1414, e il 1435, anno della morte di Giovanna II. Nel
re coronato accanto a
Ladislao è raffigurato con ogni probabilità il suo
predecessore Carlo III; e se si accorderà
all'ipotesi che la terza figura, non coronata e munita di uno scettro
privo del giglio angioino, possa identificarsi nella nobile
persona del gran siniscalco Gianni Caracciolo, morto nel 1431,
per un ventennio compagno inseparabile e braccio destro della
regina, l'opera subirà un'ulteriore delimitazione cronologica
entro il 1431 e il 143533.
Secondo
Francesca Navarro invece
Una
data non lontana dal 1414, che è l'anno di morte di Ladislao,
raffigurato nella
schiera degli eletti condotti verso la città di Gerusalemme
accanto al padre Carlo III
di Durazzo e ad un papa, forse Gregorio XII, sembra ragionevole.
Gregorio
XII, infatti,
era sempre stato appoggiato da Ladislao contro il papa sorto dal
concilio di Pisa
del 1409 ed i suoi successori e gli
aveva consegnato il territorio della Chiesa, la Marche,
l'Umbria, anche se per ragioni di opportunità politiche
Ladislao optò nel 1412 per Giovanni XXIII34.
Antonio
Abbatiello ha riconosciuto invece nella figura del pontefice
tenuto per mano da san Pietro papa Bonifacio IX (1389-1404);
Bonifacio, intatti,
aveva tolto ai sovrani angioini la scomunica inflitta loro dal
predecessore Urbano VI che, sempre secondo Abbatiello,
comparirebbe con lo sprezzante appellativo di Giuliano
l'apostata (figg.
17-18)
all'inferno35 Sulla base di
questa lettura iconologica, lo studioso colloca la datazione
degli affreschi intorno agli anni 1389-140436.
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Soffermiamoci
sulla raffigurazione del paradiso e sulle figure dei presunti re
angioini (fig.
15): è innegabile che i due personaggi coronati
abbiano una visibilità maggiore rispetto agli altri eletti.
Sono tra i personaggi più vicini a Pietro: la loro figura è ritratta
per intero perché
fanno parte della schiera degli eletti raffigurati sul primo
registro e sono ben più visibili degli stessi santi (Caterina,
Leonardo, ecc.).
Inoltre, essendo questa la parte inferiore dell'affresco, i
volti di questi beati si trovano a poco più di due metri da
terra, altezza di poco superiore a quella di un qualsiasi fedele
che, entrando in chiesa, non poteva fare a meno di notarli, come
del resto accade ancora oggi a noi. |
È possibile dunque che la
scelta di raffigurare dei regnanti in una posizione così in
primo piano non sia casuale. Questo avvalorerebbe l'ipotesi
degli studiosi che identificano in queste figure i due monarchi
Carlo III e suo figlio Ladislao di Durazzo. Ma per una più
completa analisi iconologica dell'affresco sarà bene
considerare la presenza di un altro personaggio presente nel
Giudizio Universale, ovvero la figura posta all'inferno, che la
didascalia definisce Julian(us) apostata.
Giuliano
l'apostata con la tiara?
La
raffigurazione dell'imperatore Giuliano (361-363 ) con indosso
il copricapo papale, il triregno, è assai singolare. Per quale
motivo Giuliano, passato alla storia per aver rinnegato il
cristianesimo, avrebbe dovuto essere raffigurato con la tiara?
Era necessario questo attributo per rappresentare il peccato di
apostasia? Se osserviamo con attenzione la scritta «Julian(us)
apostata» noteremo delle anomalie rispetto alle altre
didascalie poste accanto ai vari dannati dell'affresco. Le
anomalie sono di carattere grafico e riguardano la parola «apostata»
e, in particolare, la sua parte centrale e finale.
La scritta «ostata» ha un andamento molto composto: solo il
corpo delle lettere (caratteristica della scrittura minuscola)
è perfettamente inserito nel sistema formato da due linee
parallele, mentre le aste ascendenti delle lettere s, t, t occupano
lo spazio soprastante; non vi è spazio tra le lettere, che
risultano accostate le une alle altre. Le didascalie invece che
identificano gli altri peccatori ritratti all'inferno e la
stessa parola «Julian(us)»
appaiono disordinate: il corpo delle lettere varia per
dimensioni; manca una ipotetica riga di base su cui disporre il
testo; le lettere sono ben separate fra loro. Nella parola «apostata»
la a iniziale differisce dalle altre due: il disegno è
più angoloso; più evidente è la spezzatura delle curve; non
compare l'occhiello superiore chiuso. La o è
tondeggiante, schiacciata rispetto al disegno della stessa
lettera presente in altre didascalie dell'affresco (per esempio
«ferraro», «notarius»). E evidente che per scrivere la
parola «apostata» sono intervenute due mani differenti, in
tempi diversi, anche se non molto lontani fra loro; le scritture
sono comunque ascrivibili al XV secolo. Molto probabilmente la
dicitura «Julian(us) apostata» non è altro che il risultato
di una contraffazione di una preesistente didascalia che si
riferiva invece ad «Urbanus papa»37, ovvero a
Urbano VI (1378-1389). Questo giustificherebbe il triregno che
il personaggio infernale indossa e la pena che sta subendo:
segato in due come i seminatori di discordia dell'Inferno dantesco,
dove, per la legge del contrappasso, si associa al concetto di
scisma la divisione in due parti del corpo dei peccatori38.
A
chi altri si potrebbe attribuire una simile condanna, se non ad
un pontefice che è stato ritenuto dai propri contemporanei il
fautore del Grande Scisma (1378-1449) che tanto ha lacerato non
solo il Regno di Napoli (di cui il papa, al secolo Bartolomeo
Prignano, era originario), ma tutta la cristianità?
Antonio
Abbatiello vedeva nella figura di Giuliano l'apostata una
sprezzante allegoria del pontefice; probabilmente non si
trattava di una semplice allegoria, ma di una vera e propria
raffigurazione che pochi anni dopo la sua ideazione è stata
censurata. È ovvio pensare che l'effige di un papa punito
all'inferno sia stata ritenuta quanto meno inopportuna; questo
non tanto per l'onta che disonorava la memoria del diretto
interessato, Bartolomeo Prignano, ma piuttosto per il ruolo che
egli ricopriva. È ipotizzabile che questa immagine abbia subito
un intervento contraffattore, forse proprio al termine del
Grande Scisma, per porre fine a polemiche e contrasti che
avevano profondamente turbato la Chiesa e i fedeli.
Che
Bartolomeo Prignano sia stato ritratto tra i dannati
dell'inferno nell'affresco di Sant'Agata de' Goti è plausibile,
dati gli effetti della politica che lo stesso pontefice attuò
durante il proprio pontificato nel Regno di Napoli39,
territorio dilaniato dalle lotte tra i vari rami della dinastia
angioina e contemporaneamente tra i sostenitori di due diversi
papi.
Eletto
al soglio pontificio l'8 aprile 1378, Urbano VI cercò subito di
sostituire all'oligarchia curiale cha aveva imperato alla corte
di Avignone per settanta anni il potere della monarchia papale.
Puntuali sorsero i contrasti tra il papa e i cardinali che il 9
agosto 1378, con la promulgazione dell'enciclica Urget nos
Christi charitas, dichiararono nulla l'elezione dell'8
aprile e invitarono la cristianità a non prestare obbedienza al
papa. Nel Regno di Napoli l'elezione di Bartolomeo Prignano tu
invece accolta con
entusiasmo dai napoletani, che vedevano in lui non solo un
personaggio di grande importanza religiosa, ma un vero
protettore. Anche la regina Giovanna d'Angiò, che sperava di
vedere finalmente finita l'ingerenza della curia avignonese nel
Regno, salutò con favore l'elezione del nuovo pontefice e ordinò
solenni festeggiamenti in suo onore. Ma l'invadenza di Urbano VI
negli affari del Regno spinse presto la regina a schierarsi con
i cardinali dissidenti che, nel frattempo (20 settembre 1378),
avevano eletto a Fondi un nuovo papa: Roberto di Ginevra, salito
al soglio pontificio con il nome di Clemente VII. Giovanna fu la
prima sovrana a riconoscere il nuovo pontefice, sottovalutando
però l'affetto che i suoi sudditi nutrivano per Bartolomeo
Prignano: quando Clemente VII giunse a Napoli (10 maggio 1379) e
fu accolto con grandi onori dalla regina in Castel dell'Ovo, la
folla in tumulto si sollevò inneggiando a Urbano VI.
Giovanna
simulò il ritorno all'obbedienza urbanista e invitò Clemente
di Ginevra a lasciare Napoli. Il nuovo pontefice, tornato
ad Avignone, si pose sotto la protezione del re di Fran cia.
Quando la rivolta fu placata, Giovanna riconobbe nuovamente
Clemente VII e Urbano VI reagì alla sleale condotta della
sovrana condannandola come scismatica ed eretica e destituendola
dal trono (15 aprile 1380). Bartolomeo Prignano affidò il Regno
a Carlo di Durazzo, che il 17 luglio 1381, sconfitte le truppe
angioine, prese effettivo possesso del Regno ristabilendo
l'obbedienza urbanista. Con l'investitura il nuovo sovrano
prometteva fedeltà al papa, si impegnava a combattere lo scisma
e a dare esecuzione alle sentenze pontificie. Il clero
clementista fu sottoposto a epurazione e i benefici sottratti
furono donati ad ecclesiastici di nazionalità napoletana fedeli
a Urbano VI.
Inizialmente
i rapporti tra Urbano VI e Carlo di Durazzo furono buoni,
nonostante il malcontento del pontefice nel non vedere
riconosciuti al nipote Francesco Prignano alcuni feudi che il
nuovo sovrano avrebbe dovuto cedere all'atto dell'investitura.
L'equilibrio si ruppe nell'autunno del 1383, quando il
pontefice, preoccupato per la spedizione del clementista Luigi
d'Angiò, figlio adottivo ed erede di Giovanna (la regina era
morta nell'estate del 1382), manifestò la sua disapprovazione
nei confronti di Carlo di Durazzo, la cui strategia difensiva fu
giudicata inefficiente. Poiché una vittoria
angioino-clementista avrebbe coinvolto le sorti del Regno e il
suo stesso pontificato, Urbano VI decise di recarsi
personalmente a Napoli. L'iniziativa vide subito l'avversione,
sostenuta dal re, di alcuni cardinali dissidenti capeggiati dal
vescovo reatino Bartolomeo Mezzavacca. Prima si opposero
all'impresa sostenuta da Bartolomeo Prignano adducendo a
pretesto la pericolosità, poi si rifiutarono di parteciparvi.
Il 15 ottobre 1383 Urbano VI deponeva i cardinali ribelli
tacciandoli di insubordinazione. Carlo di Durazzo, che incontrò
il pontefice, si impegnò nella difesa dei cardinali accusati
chiedendo la reintegrazione del Mezzavacca. Non sappiamo con
certezza in che termini avvenne il colloquio, ma è possibile
che Urbano VI giungesse a minacciare l'applicazione di sanzioni
previste dall'investitura, forse la stessa deposizione di Carlo.
Conosciamo però gli esiti del colloquio: la notte fra il 3 1
ottobre e il 1° novembre 1383 Carlo di Durazzo fece arrestare
il papa. Ma, ancora una volta, la fedeltà urbanista della
scontenta popolazione napoletana convinse il regnante a recedere
dalle iniziative prese: il 4 novembre Carlo diffuse la notizia
della ristabilita pace con Bartolomeo Prignano. Nel clima di
apparente pacificazione Urbano VI indisse una crociata contro
Luigi d'Angiò investendo ufficialmente re Carlo; approfittando
poi della partenza di quest'ultimo, abbandonò Napoli e si
rifugiò nel castello di Nocera, feudo del nipote Francesco,
luogo che reputava più sicuro40. La morte del duca
d'Angiò nel settembre 1384 pose fine alla fragile tregua tra
pontefice e sovrano: Urbano VI fomentò la rivolta popolare
contestando le gabelle sui beni di prima necessità fino a
vietarne, sotto pena di scomunica, il pagamento. Il cardinale
Bartolomeo Mezzavacca, fedele alla causa di re Carlo, lasciò la
curia pontificia insieme ad altri cardinali dissidenti;
l'obiettivo del complotto cardinalizio era quello di affermare
l'incapacità mentale del papa, accusarlo di eresia e
quindi di
sostituirlo. Urbano VI, scoperta la congiura, fece arrestare i
cardinali a lui avversi; le cronache del tempo narrano di
sadismo e brutali torture a cui furono sottoposti i dissidenti
per volere dello stesso pontefice. L'episodio provocò la
definitiva rottura tra Carlo III e Urbano VI. La regina
Margherita fece arrestare i parenti del pontefice; il castello
di Nocera fu assediato. Il 15 gennaio 1385 il papa depose il re
e la regina, lanciò su di loro la scomunica e la maledizione
fino alla quarta generazione, interdisse la città di Napoli e i
territori appartenenti ai Durazzo, scomunicò gli ufficiali regi
in qualità di esecutori delle volontà dei sovrani deposti.
Alla taglia di diecimila fiorini promessa dal re a chiunque
avesse catturato o ucciso il papa, Urbano VI rispose con la
promessa di assoluzione da ogni censura canonica per tutti gli
ecclesiastici che avessero combattuto in sua difesa. Le truppe
che assediavano il pontefice furono messe in fuga
dall'intervento di Tommaso Sanseverino, capo del partito
angioino - con cui Urbano VI, alla morte di re Luigi, si era
riavvicinato per combattere il comune nemico Carlo di Durazzo, e
della Repubblica di Genova, che aveva inviato una flotta presso
Napoli. Il pontefice riuscì a fuggire, trovò rifugio a Genova,
poi a Lucca, Perugia, Roma. Non tornò più a Napoli, ma coltivò
la sua politica di ingerenza nel territorio del Regno fino alla
morte, sopraggiunta con sospetto di avvelenamento nell'ottobre
1389 a Roma41.
Nonostante
l'assenza di Urbano VI, Napoli restava teatro di scontri e
tumulti: alla morte di Carlo di Durazzo (27 febbraio 1386) la
regina Margherita aveva mantenuto la reggenza per il figlio
Ladislao, ma una rivolta fomentata dal partito urbanista scosse
ancora una volta l'autorità regia. Sulla sovrana e sull'erede
al trono pesavano la censura ecclesiastica e la deposizione che
aveva colpito Carlo e tutti i suoi discendenti; solo una revoca
di questa censura avrebbe consentito a Ladislao di diventare
legittimo successore al trono. Inoltre, data la minore età
dell'erede, la reggenza spettava comunque al pontefice. La
regina fu costretta ad abbandonare la città e si rifugiò a
Gaeta. Fu il successore di Urbano VI, Bonifacio IX (1389-1404),
a revocare la scomunica ai Durazzo: re Ladislao fu incoronato
proprio a Gaeta il 29 maggio 139042.
La
revoca della scomunica rappresentava, insieme alla
riabilitazione dei cardinali ribelli a papa Urbano VI, una
sconfessione decisa della politica e dell'operato del pontefice
defunto.
Se
il Grande Scisma provocò nel mondo cristiano gravi turbamenti
-non solo due pontefici che si contendevano il primato della
Chiesa, ma sovrani in competizione tra l'obbedienza all'uno o all'altro papa; monasteri retti da due superiori; esponenti della
Chiesa in odore di santità che sostenevano l'uno o l'altro
partito -, senza dubbio il Regno di Napoli rappresentò il campo
di battaglia in cui questa frattura così profonda si generò,
coinvolgendo non solo prelati e regnanti, ma la stessa
popolazione. Basti pensare ai tumulti della folla, che cercava
di imporre ai propri sovrani il pontefice preferito; oppure a
papa Urbano VI che, consapevole del proprio ascendente sul
popolo, ogni qual volta si sentiva minacciato si circondava di
napoletani e li istigava a non prestare obbedienza ai sovrani.
Senza
dubbio l'effige del papa scismatico (anche se il vero scismatico
fu Clemente VII, perché l'elezione di Bartolomeo Prignano fu
legittima) ben visibile tra i condannati alle pene infernali
dell'affresco della chiesa della SS. Annunziata poteva
rappresentare un mezzo di propaganda in favore della dinastia
Durazzo d'Angiò, più volte scomunicata e maledetta dal
pontefice. Un manifesto politico chiaro che immortalava la
riabilitazione dei Durazzo d'Angiò (tra i beati del paradiso) e
la condanna di un pontefice spregiudicato, le cui scelte furono
disconosciute immediatamente dal successore Bonifacio IX.
Il
papa Urbano, tante volte acclamato e difeso dalla folla, fu
ritratto secondo il canone della pittura infamante45
caratteristica dell'Italia tardo-medievale:
l'immagine dei
colpevoli di diversi reati (tradimento, omicidio, falso, ecc.)
veniva esposta sui palazzi più
rappresentativi della città o nelle zone più frequentate dai
cittadini, corredata con una scritta che riportava il nome del
colpevole e il tipo di reato; l'effige dei condannati proponeva
corpi in pose innaturali (i traditori, per esempio, impiccati e
testa in giù). Con queste immagini l'individuo reo veniva
colpito nella dignità, e con lui, indirettamente, venivano
esposte al ludibrio, ma anche all'emarginazione sociale, le
persone che frequentava (per parentela, amicizia, affari). La
pittura infamante era un esemplare deterrente agli occhi degli
spettatori, che avrebbero dovuto imparare ad astenersi dai reati
e ad isolare coloro che li commettevano. Nel caso del ritratto
infamante di Urbano VI, un forte monito era rivolto a tutti
coloro che probabilmente lo avevano sostenuto e lodato.
Stabilita
la presenza di papa Urbano VI all'inferno, è ragionevole
pensare, viste le reciproche ostilità tra i due personaggi, che Carlo di Durazzo sia uno dei personaggi
coronati ritratti tra i beati. È probabile dunque che
l'affresco sia stato realizzato durante il regno di Ladislao
(1390-1414), il quale, attraverso l'immagine del padre ritratto
tra i giusti degni di accedere al paradiso, procedeva
pubblicamente alla riabilitazione dell'intera dinastia, sulle
cui generazioni, non bisogna dimenticarlo, pesava l'anatema di
papa Urbano VI.
L'individuazione
di altri personaggi storici tra i beati raffigurati nel Giudizio
Universale della chiesa della SS. Annunziata è piuttosto
problematica; reputo plausibile l'interpretazione di Abbatiello,
che riconosce nel pontefice alla sinistra
di Pietro papa Bonifacio IX; questa lettura potrebbe essere un elemento in più a sostegno del manifesto iconografico
in favore dei Durazzo
d'Angiò e porterebbe a supporre che l'affresco sia stato
realizzato dopo il 1404, anno della morte del pontefice.
Torniamo
alla descrizione del Giudizio Universale. Ancora una simmetria
è da evidenziare tra la raffigurazione del paradiso e quella
dell'interno: alle schiere
dei beati, tra cui i re pii,
si oppone - alla stessa altezza del Giudizio Universale,
ma appunto nella sezione dedicata all'inferno - il ventre di
Satana, che stringe fra le braccia i tiranni, ovvero i cattivi
governanti (fig.
19).
Una simmetria, dunque, volta a sottolineare l'antagonismo tra
bene e male, tra le conseguenze di una vita retta e di
una peccaminosa, tra la beatitudine
e le pene eterne. Ma se si osserva con attenzione, tra i tiranni
condannati ci sono tre personaggi che indossano corone
adornate dal giglio angioino:
è questo un altro elemento dell'ipotetico manifesto propagandistico
dei Durazzo d'Angiò? Oppure, come tradizione dell'iconografia
del Giudizio Universale, si tratta genericamente della categoria
dei cattivi regnanti? La
prima ipotesi porterebbe a riconoscere nel dannato ornato da corona
regale una allusione a Luigi I d'Angiò, che fu in conflitto con
Carlo di Durazzo per la
conquista del Regno di Napoli; altre interpretazioni risultano
difficili. |
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Osservando
ancora la schiera degli eletti, vediamo isolata, in basso, la
figura di un uomo solo in parte visibile (l'affresco ha infatti
delle lacune). L'uomo ha la capigliatura in disordine (fig.
9), in forte contrasto con tutti gli
altri eletti che indossano eleganti abiti e copricapi (è quindi
di umile origine), e
sembra essere in ginocchio, sostenuto da un bastone, o forse da
una croce a forma di tau
(sotto la capigliatura si intravede una parte di bastone
più larga rispetto al fusto). Ritratto mentre chiede le
elemosine - atto che lo contraddistinse in vita presso la mensa
del ricco epulone, come narra la parabola di Luca ( 16, 19-34)
-, potrebbe trattarsi di Lazzaro che, al momento
della morte, fu portato dagli angeli nel seno di Abramo, ossia
in paradiso, dove infatti lo si raffigura.
Più
in basso, all'esterno della cornice che racchiude la scena del
Giudizio, vi sono i resti di una figura di donna probabilmente
in ginocchio (una committente), simile alle altre due figure femminili raffigurate insieme
alle due maschili (due coppie di committenti) sotto l'immagine
dell'angelo nunziante
affrescato nel catino absidale della chiesa ed opera del medesimo
autore del Giudizio (fig. 45).
La
battaglia celeste
Sopra
una superficie rocciosa, al di sotto della quale si trova
l'inferno, l'arcangelo Michele è impegnato nella pesatura delle
anime (ovvero delle azioni
buone e cattive di una stessa anima): una piccola figura
antropomorfa prega in ginocchio sull'unico
piano della bilancia visibile (manca una parte di affresco); il
corpo dell'arcangelo e il suo volto sono in posizione frontale,
allegoria - come nel caso del Cristo Giudice - di un punto di
equilibrio che garantisce l'imparzialità (fig.
20)44.
La
figura di san Michele, che ai nostri occhi appare come
un'immagine elegante e godibile, aveva la funzione di ricordare
alle donne e agli uomini del Medioevo che la giustizia divina
sarebbe stata applicata ad ogni singolo individuo,
inesorabilmente. Giordano da Pisa, predicando nella città di
Firenze nei primi anni del XIV secolo, così spiegava il ruolo
di san Michele e il rito della pesatura dell'anima: |
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Ora
conosci la vanità del mondo ch'è neente, e così ne ritorni a
Dio, e lascine i peccati. Datti Iddio ancora questo incarico e
questa gravezza delle tribulazioni in questa vita, ad
librandum. Due sono le bilance; l'una dove sta il peso;
l'altra ove sta la cosa che si pesa. Così propriamente sono due
le bilance; l'una bilancia è l'anima, e l'altra bilancia è il
corpo. Nella bilancia dell'anima sta la vertù e la vontà;
nella bilancia del corpo sta il peso della tribulazione: se
stanno pari le bilance si è buono. [...] Istà Santo Michele e
bilanciale: or noi vedete dipinto colae, che bilancia il bene e
il male? Allora se' guiderdonato, e ricevi ciò che dei: se ‘1
bene pesa più che '1 male, si vai bene; ma se il male pesa più
che ‘1 bene, allora cattivo a te, che vai male; onde guai a
chi questo pensamento non pensa dinanzi, e di procacciarsi sì
che '1 suo bene e la sua buona mercia sia assai, e la cattiva
poca, o non niente. Queste stadere di Santo Michele non
intendere che sieno stadere di rame o di ferro, che già di quel
peso poco varrebbono, che non peserebbono mercatanzìa
spirituale. Ma queste bilance sono la giustizia di Dio, la qual
pesa tutti i meriti, e tutti i beni, e tutti i crimini, e tutti
i peccati, e non falla grano in peso, tanto è giusto45.
Accanto
all'arcangelo Michele le virtù, impersonate da sette donne
incoronate e aureolate, spingono, aiutate da lunghi bastoni, le
teste di altrettante figure femminili - i vizi - nel fuoco
infernale (figg.
22 - 24 ).
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È
l'epilogo di una psicomachia - parte integrante del tema del
Giudizio Finale, perché l'uomo è giudicato da Dio in base ai
peccati commessi e alle virtù esercitate - immortalato
nell'istante del trionfo delle virtù cardinali (humilitas,
iusticia, temperancia, fortitudo) e delle virtù teologali (spes,
fides, caritas), che, in piedi, austere ed eleganti nel loro
gesto, portano a compimento l'ultimo
attacco alla schiera dei vizi46 ormai sottomessi e
umiliati. Le figure femminili sono carponi, hanno dei grossi
pesi legati al collo e la testa quasi immersa nell'antro
infernale; le fiamme sono in procinto di bruciare i loro volti47,.
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Degna
di nota è la sostituzione nell'affresco di Sant'Agata de' Goti
di prudentia con humilitas. Già nel XII secolo humilitas
aveva affiancato le tre virtù teologali, anzi in alcune
testimonianze essa era diventata la più importante tra queste,
la madre di tutte le virtù. Nel De fructibus carnis et
spiritus (secolo XII), humilitas, definita «radix
virtutum», guida le tre virtù teologali e le quattro cardinali
in una battaglia contro i vizi capeggiati da superbia, «radix
vitiorum». La lotta tra humilitas e superbia, a
capo delle due opposte fazioni, è descritta anche nell'Hortus
Deliciarum di Herrad di Hohenbourg (secolo XII). È
probabile che nel nostro affresco la sostituzione di prudentia
con humilitas si sia affermata proprio perché quest'ultima
fu considerata in varie psicomachie «radix virtutum» e guida
delle stesse virtù cardinali e teologali; essa è infatti
raffigurata per prima nella schiera delle virtù e la sua
diretta nemica è proprio superbia, «radix vitiorum»48.
Lo
scenario infernale
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Sotto
la disputa tra vizi e virtù c'è la rappresentazione
dell'inferno (fig.
25),
i cui principali elementi sono le tenebre, il fuoco e la
presenza di diavoli e serpenti, principali artefici
delle torture eterne.
Un
diavolo trascina gli empi incatenati ed ancora vestiti:
sono i peccatori trovati in vita su questa terra nel
giorno del Giudizio (fig. 31). Su un albero secco,
avvolto dalle fiamme, sono appesi e puniti alcuni
peccatori: un omicida (omicido) impiccato (fig.
27); il
bestemmiatore (blasfemator dei) legato per la
lingua (fig.
27); il ladro (latro) appeso
per il braccio destro (fig.
26); la ruffiana (ruffiana) per
i capelli (ritenuti il principale strumento di seduzione
femminile) (fig.
28); colui
che ha commesso peccati carnali (fornicator) per
il membro virile (fig.
29);
il traditore (traditor) legato
per il piede destro (fig.
29); il sacrilego (sacrilegius)49
attraverso una fune che gli cinge la vita (fig.
30). Accanto
al ladro è appeso, attraverso l'occhio destro, un peccatore a
cui non è attribuita alcuna qualifica (fig.
26). Questi
potrebbe essere un falso testimone, un testimone oculare che ha
mentito su ciò che ha visto e per questo il suo occhio viene
utilizzato come uno strumento della sua tortura50.
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Ad
eccezione del sacrilego, i dannati sono legati all'albero
infernale con la parte del corpo che ha reso possibile il
compimento del peccato: una sorta di contrappasso in cui
l'organo che ha peccato diviene uno strumento del castigo
eterno.
Il
tema è lo stesso proposto dalla Visione di san Paolo (Visio
Pauli): «E sancto Paulo puose mente alle porte del ninferno,
e vide arbori di fuoco ardenti; e gli peccadori saliano e
discendieno per questi arbori et istavano inpesi in quelli
arbori, tali per le mani, tali per li piedi, tali per le lingue,
e tali per gl'orecchi»51 .
La
rappresentazione dei peccatori appesi ad un albero ricorda
quella della pittura infamante52. Ma, nell'ambito di
un Giudizio Universale e quindi in un contesto religioso, questa
immagine violenta, tratta dalla vita quotidiana, assumeva un
aspetto ancora più insopportabile, perché l'infamia, e
soprattutto il terrore della tortura fisica, venivano proiettati
nell'eternità: una punizione senza fine.
Poco
più in basso due demoni sono intenti a dividere in due parti,
verticalmente, con una grossa sega, il corpo di Urbano VI
celato, come si è visto, dallo «pseudonimo» di «Julianus
apostata».
Al
centro della raffigurazione dell'inferno è Lucifero" (fig.
19), con i piedi, le mani ed il collo incatenati. Il re degli
inferi tiene in braccio re e nobili malvagi, l'iscrizione recita
tirandi (tiranni). Essi, riconoscibili dai copricapi e
dalle corone (sono infatti nudi), hanno una espressione
implorante:
lo suggeriscono le mani giunte con le dita incrociate e i loro
volti atterriti, alcuni digrignano addirittura i denti. |
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Alle
spalle di Lucifero, un drago alato (figg. 32 e
25
), dalle
smisurate dimensioni, occupa gran parte del regno infero.
Emette fiamme dalla bocca e dalle orecchie e sembra essere
l'origine del fuoco infernale. La sua bocca divora alcuni
peccatori sulle cui colpe non è possibile sapere: mancano
qualifiche scritte ed attributi particolari che possano
identificarli. Essi sono divorati in prossimità dell'ingresso
dell'inferno, proprio sotto il registro occupato dai dannati
ancora vestiti che, legati ad una catena, vengono trascinati
da un diavolo all'interno del regno di Satana. La coda del
grosso drago, che si trova in posizione diametralmente opposta
rispetto alla sua testa (in basso, alla destra dell'inferno), è
munita di una seconda testa, più piccola della prima, che
divora o forse rigurgita un altro dannato, anch'esso non
identificabile (la parte inferiore dell'affresco, ai piedi di
Satana, è piuttosto lacunosa)54. Il
drago raffigurato nella chiesa della SS. Annunziata di Sant'Agata
de' Goti è simile a quello descritto da santa Francesca Romana
nelle sue Visioni
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Vide
anche uno dragone grandissimo, lo quale stava nello dicto
inferno et teneva
tucti & tre li dicti luochi [nella visione l'inferno è
diviso in tre scomparti, uno inferiore,
uno intermedio, uno superiore]: lo capo stava nello luoco de
sopre, lo cuorpo nel
luoco de mieso, & la coda nel luoco de socto. Stava lo capo
del dicto dragone in
meco della intrata dello inferno, ma poco de socto alla dicta
intrata; & teneva
la bocca aperta colla lingua de fore, della quale gessiva
grandissimo fuoco, non
però che lucessi, ma era nerissimo & rendeva grandissimo e
crudele calore. [...] Et puoi che li demonii avevano menata la
meschina anima infine alla boccha o
vero intrata dello inferno, alcuna anima gettavano collo capo de
socto nella boccha
dello sopradicto dragone, la quale stava sempre aperta; et da
esso dragone era devorata
& prestamente gessiva la misera anima fore dello ventre
dragone [...]55.
Anche
la sorte degli scomunicati (excomunicati) descritta nella
visione della santa è analoga a quella dello sconosciuto
peccatore divorato o forse espulso dalla coda del drago posta
nella parte inferiore dell'affresco: «Delli excomunicati [...]
erano messe nel principio nella bocca dello dragone, corno è
sopra dicto. Et non gessivano dello ventre dello dragone corno
l'altre anime, ma stavano nella coda dello dragone, la quale
coda stava nello profondo luoco»56.
Nella
sezione inferiore del regno infero sono raffigurati, particolare
che rende particolarmente originale questo affresco, dei
Un'oratori che, proprio per l'errato esercizio della propria
professione, sono puniti nel fuoco eterno.
Essi
sono tutti avvolti dalle fiamme e ciascuno ha una sorta di
punitore personale: un serpente che morde loro le braccia. Sono
tutti immortalati nell'atto
di esercitare la propria attività e hanno, annotata accanto,
una scritta che li qualifica.
Un
fabbro (ferraro), munito di incudine e martello, è
intento a lavorare il ferro (fig.
33); un banchiere (bancherius),
seduto presso una rudimentale tavola, conta delle monete (fig. 34); un giudice
(index) ed un notaio [notarius), seduti presso la
medesima scrivania, tengono in mano un codice aperto ed un
documento in pergamena e sembra siano intenti a conversare
ira loro (fig. 35); un calzolaio (sutor)
è raffigurato nell'atto di tagliare con delle
forbici un pezzo di cuoio, o di tessuto (fig.
33).
Più
in basso un mugnaio (molinator) dotato di una macina a
pedale è intento appunto a macinare granaglie; al suo fianco un
macellaio (buccerius) e un oste (tabernarius) sembrano
conversare (fig.
36). Il primo ha nelle mani presumibilmente dei
pezzi di carne; il secondo solleva con la mano destra un grosso
boccale, con un gesto simile a quello di chi sta per proporre un
brindisi.
A
seguire un personaggio non facilmente identificabile: l'affresco
non è in buone condizioni e la lettura della didascalia che
qualifica l'uomo è piuttosto deteriorata. Reputo possa essere
un sarchiatore, sia dall'interpretazione di ciò che resta della
legenda (subr... ator, da intendere «subruncator»,
sarchiatore), sia dall'oggetto impugnato nella mano destra, che
potrebbe essere una roncola: l'attrezzo dalla lama ricurva
fissata ad un manico di legno usato per la potatura delle piante
e per liberare il terreno dalle erbe infestanti (fig.
36).
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Sempre
nell'interno sono visibili altri tre tipi di peccatori. Vi è un
usuraio (usuraro), contro cui infierisce un diavolo
costringendolo ad ingurgitare del liquido dal colore grigio,
probabilmente del metallo fuso (fig.
38). L'immagine
dell'usuraio punito in questo modo, o in maniera simile, non è
nuova: essa si trova, per esempio, nell'affresco del duomo di
San Gimignano, dove questo peccatore è costretto ad ingoiare
monete defecate da un diavolo, e nella miniatura perduta dell'Hortus
Deliciarum di Herrad di
Hohenbourg (XII secolo), in cui un diavolo versa, dalla
borsa legata alla cintura, delle monete nella bocca
dell'usuraio.
Un
dannato messo allo spiedo, di cui non ci è pervenuta nessuna
qualifica, potrebbe essere un sodomita (fig.
36), in analogia
con la stessa punizione inflitta al medesimo peccatore
nell'inferno dipinto da Taddeo di Bartolo nel duomo di San
Gimignano e nella cripta della chiesa di S. Francesco a
Leonessa, in provincia di Rieti (XV secolo)57.
Una
figura femminile dai lunghi capelli biondi, anch'essa senza
qualifica, impugna nella mano destra una piccola ampolla per il
profumo e, nella sinistra, uno specchio (di cui è visibile solo
una parte poiché, anche in questo caso, l'affresco è
deteriorato). La donna, che ostenta i simboli della seduzione
femminile (la lunga chioma bionda - attributo per antonomasia
della Maddalena e quindi dell'istigazione alla lussuria -, il
profumo, lo specchio), potrebbe essere una prostituta,
considerando la prostituzione come uno dei mestieri che non
vengono esercitati senza commettere peccato e ritratti in questa
specifica sezione dell'affresco; oppure, più semplicemente,
potrebbe rappresentare l'allegoria della lussuria (fig.
37).
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Pene
transitorie
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Sotto
e a fianco dell'altare dell'Etimasia sono raffigurate due scene
relative al purgatorio. Una scritta, posta sotto quella relativa
ai santi Innocenti, recita: pro missas pro helemosina(m). Le
anime del purgatorio escono da un antro roccioso; accanto gli
angeli le accolgono (ogni angelo si occupa di una sola anima).
Alcuni di essi suonano (un angelo ha una giga, un altro sembra
impugnare una viella) e guidano le anime monde dal peccato verso
la zona dell'affresco in cui è raffigurato il paradiso con i
patriarchi. Sono le anime di coloro che hanno finito di scontare più celermente la pena prevista per i peccati
veniali compiuti in vita. Esse hanno beneficiato
dell'intercessione dei vivi, che in loro favore hanno fatto
celebrare messe ed hanno offerto elemosine alla Chiesa,
garantendo loro un periodo di purgazione più veloce (figg.
39-40).
Alla
destra dell'altare si presenta un'altra scena relativa alle
anime del purgatorio: da una cavità rocciosa in cui c'è un
fiume - le cui acque sembrano scorrere veloci - fuoriescono
altre anime di peccatori (ci aiutano le diciture fornicatio,
avaritia), richiamate da un angelo che le invita a
presentarsi al rito della pesatura dell'anima58.
Coloro che stanno per emergere dalle acque hanno un
atteggiamento orante, non diverso da quello assunto dai
personaggi che escono dagli avelli (fig. 41). |
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Il
fiume ricorda il Letè dantesco, in cui le anime e lo
stesso poeta fiorentino vengono immersi al termine del percorso
di purificazione e da cui escono dimentichi dei peccati commessi59.
Attraverso
la scelta di ritrarre l'uscita delle anime dal purgatorio in
modo duplice, si evidenzia l'efficacia delle azioni dei vivi in
favore dei morti. Coloro infatti che hanno goduto dei benefici
di messe in suffragio, o per cui parenti ed amici hanno compiuto
le elemosine, raggiungono attraverso una strada più diretta il
paradiso: escono dal purgatorio senza dovere sottostare alla
immersione nel fiume purificatore.
Più
in basso, alla sinistra della parete su cui è raffigurato
l'inferno, risiedono altri due gruppi di anime: il primo gruppo,
formato da figure maschili
visibili dalla testa ai fianchi, si trova in una cavità
rocciosa; il secondo gruppo è invece formato da figure (di cui
si vedono solo le teste) immerse in una sorta di pozzo (fig. 42
).
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Questi
due luoghi non sono avvolti dalle fiamme dell'inferno e coloro
che vi risiedono non sembrano subire alcun tipo di tortura, ma
piuttosto hanno l'aspetto di chi è in attesa. Purtroppo le
iscrizioni che restano sono di poco aiuto per cercare di
comprendere la differenza tra i due luoghi e per definire la
loro identità precisa. Sul bordo del puteale restano poche
lettere (lo poc..., o forse lopoc.. ), sulla cavità
rocciosa ancora meno (lol...). I due articoli al maschile
singolare («lo») lasciano intendere che le due iscrizioni
perdute si riferivano a qualificare il luogo piuttosto che il
gruppo di anime in esso raffigurate.
Certa
è la delimitazione netta con il vicino inferno: non ci sono
fiamme, né serpenti, né diavoli; credo si possa affermare
ragionevolmente che la cavità inferiore rappresenti il limbo60
(anche per l'iscrizione
«lo l[imbo]») e che il pozzo superiore («lo poc[co]») sia
una sezione del purgatorio.
La
condanna dei peccati in base allo «status» socio-professionale
Come
si è già scritto, tratto originale di questo Giudizio
Universale è dato dalla presenza all'inferno di categorie
socio-professionali. Questo tema, presente anche in altri cicli
di Giudizi Universali dell'Italia centro-meridionale61,
costituisce una testimonianza dell'affermazione nella realtà
economica e civile del Basso Medioevo di categorie professionali
quali giudici, mercanti, notai, artigiani, la cui attività era
indispensabile al normale svolgimento della vita quotidiana. E
come la società diveniva sempre più complessa ed articolata,
così l'immaginario infernale si adeguava ai mutamenti della
vita terrena, affiancando ai peccatori rei di aver commesso vizi
capitali anche quelli che avevano commesso peccati legati
all'esercizio della propria professione. Alla categoria del
peccato si veniva affiancando la categoria del peccatore,
proprio in virtù della importanza crescente che
ogni categoria professionale acquisiva all'interno della
società. La Chiesa, attenta alle evoluzioni socio-culturali,
percepiva i cambiamenti e cercava di controllarli: il campo
della predicazione e quello della confessione si adeguarono
all'insegnamento della religione ad status.
Famosi
predicatori come Giordano da Pisa (XIV secolo) e Bernardino da
Siena (XV secolo) dedicarono gran parte della loro predicazione
a mercanti e artigiani. A questi veniva contestato il commercio
con frode e dolo, attraverso l'uso di falsi pesi e misure,
oppure la vendita di merce scadente o fallata a danno di ignari
acquirenti, o anche il peccato di usura. Dice Giordano:
Et
peccano [li mercatanti] in tre modi, cioè: in substantia rei,
in qualitate et in mensura. in substantia rei, in della
sustantia della cosa, però che molte volte vendono una cosa per
un'altra. Vendranno una cosa per oro et non sarà. Questa è
falsità somma! Et questi cotali mercatanti son cacciati da Dio
del tempio, però che sono mali mercatanti, che vendono una cosa
per altra, là unde elli offendono Dio in verità. In del
secondo modo peccano li mercatanti in falsitade di qualità: che
ben sarà oro, ma non buono, et vendrallo per buono! Questo è
grandissimo inganno, ad vendere la mala mercatantia per buona.
Questi sono mali mercatanti! Et questi son cacciati da Cristo
del tempio, però che ingannano li proximi, et soline tenuti ad
restitutione d'ogni danno dato. Nel terco modo ingannano lo
proximo in mensura, et questi cotali mercatanti son cacciati
del tempio come io diroe. Molte sono le misure: l'una è misura
di cocine o vero bilancie, però che alcune cose sono che ssi
pesano; un'altra misura è che ssi fa ad canna. Un'altra misura
è come sono li denari, li quali, secondo Aristotile, sono una
misura generale colla quale tutte le cose si stimano. Li
mercatanti li quali ingannano, et vendono coi falsi pesi o
pesano male o danno false monete, sono cacciati del tempio di
Dio et dannati. Anco quelli che fanno le male misure colle
canne, però che stendono troppo lo panno, sono cacciati del
tempio, però che in falso modo lo vendono. Anco li mercatanti
che falsamente et con false paraule induceno li compratori sono
cacciati del tempio. Anco quelli che misurano colla mala misura
della pecunia. Verbi gratia: però che vendono le lor cose oltra
quello ch'elle vagliono. Ae volontà quelli che vende di vendere
la cosa in doppio più che non vale: questi è malo merchatante
et è cacciato del tempio, pero che misura la cosa siili
con troppo grande misura, unde però pecca et ènne
tenuto ad restitutione. Et lo simigliante dico di tutte queste
cose in del comperatore, se elli vuole ingannare lo venditore:
però che la cosa buona vuole comprare per ria et avìliala, et
vorrebbela comprare per la metà meno ch'ella vale. Questi è
mal mercatante et de' essere cacciato del tempio. Unde non è
licito ad avere mala volontà ad volere ingannare lo proximo.
[...] Or potresti tu addimandare se fusse licito
ad vendere le mercatantie ad termine. Rispondoti che se tu non
vendi la cosa più per lo termine che la possi vendere al
termine, non pecchi. Altrementi se tu la vendi al termine più
per la ragione del termine, allora è usura et pecchi
mortalmente. Anco si suole dimandare quando la pecunia si dà in
prestansa o in accomandigia al mercatante et non di' nulla ch'elli
te ne dia merito, ma pur ài intentione d'averne alcuna cosa,
stando sempre salvo lo capitale. Usura è, et non è licito di
prendere alcuna cosa62.
In
alcuni casi, secondo Bernardino da Siena, l'accusa rivolta ai
mercanti è di spergiuro:
[...]
quando con bugie, con sagramenti falsi vendi e compri la
mercatanzia, o con mali pesi, o con cattive misure, con
soffisticamenti, con mescolare una cosa con un'altra,
come fanno gli speziali. E, ogni volta che giuri falsamente
sopra a una mercatanzia,
pecchi mortalmente, e così ogni volta di' bugie, che si ricorda
el nome di Dio invano, dicendo el falso e giurando el
falso63.
Ai
mercanti inoltre contesta l'esercizio della propria attività
nei giorni e nei luoghi consacrati a Dio:
[...]
che d'ogni tempo non debbi mercatare come sono e dì delle feste
comandate da santa
Chiesa da guardare; è massimamente doppio peccato mortale
quando per lo
mercatantare tu ne perdi la messa e il bene che tu se' tenuto di
fare. La sacrata quaresima
il lasciare le prediche per avarizia e per cupidità di
guadagnare è peccato
mortale [...] che in ogni luogo non è lecito il fare
mercatanzia. È proibito el farla o il ragionarla nelle chiese,
ne' chiostri, ne' cimiteri sagrati di santa Chiesa64.
Nel
campo della confessione vennero redatti, a partire dal XIII
secolo, manuali per confessori inesperti, una sorta di
abbecedari della confessione in cui si riportavano lunghe serie
di quesiti da porre in base ai vizi capitali e, in alcuni casi,
anche in base allo status socio-professionale di coloro
che si confessavano. Molto conosciuto, per quanto riguarda
questa seconda tipologia di manuali, fu il Confessionale65
di Giovanni di Friburgo (m. 1314) che ebbe una grande
divulgazione nei secoli XIV e XV. Sotto forma di promemoria, il Confessionale
elenca una lunga serie di domande da porre ad ecclesiastici,
giudici, avvocati, medici, docenti, mercanti, con tadini,
artigiani, salariati. Questo catalogo di peccati e potenziali
peccatori, opera di meticolosa classificazione, ci informa di
tutte la colpe in cui gli uomini e le donne potevano incorrere.
Inoltre manifesta la volontà dell'autorità religiosa di
combattere i vizi in nome dell'ideologia cristiana e di
promuovere dei modelli di comportamento sociale ad essa
confacenti66.
Ma
l'attenzione alla condanna del fenomeno non era propria solo
della Chiesa: anche negli statuti cittadini medievali veniva
dato largo spazio alla regolamentazione delle attività
commerciali, soprattutto in funzione della repressione delle
frodi a danno degli acquirenti67.
La
condanna del peccato ad status ha testimonianze anche
nella letteratura, in particolare nel genere letterario delle
visioni dell'aldilà: singolari sono le già ricordate Visioni
di santa Francesca Romana (XV secolo), che vide torturati
all'inferno giudici, medici, farmacisti, macellai, osti. Nelle Visioni
i giudici che hanno emesso false sentenze sono immersi in
tini con oro e argento liquefatto e vengono dilaniati dai
diavoli68. I medici - colpevoli di avere praticato
aborti, di avere consultato libri proibiti, di avere esercitato
la professione semplicemente a scopo di lucro e di avere
prestato cure ai pazienti prima che questi si fossero confessati69
- sono appesi a testa in giù, posti tra graticole infuocate e
graffiati dagli artigli dei demoni70. I farmacisti
subiscono per i peccati di ignoranza e avidità le medesime
torture dei medici71. Gli osti, poiché hanno peccato
di frode vendendo vino annacquato, vengono immersi nel ghiaccio,
poi nel vino bollente, quindi nell'aceto. Colpevoli del peccato
di avidità, sono inoltre costretti a ingerire oro e argento
liquefatto72. Infine i macellai: sono fissati ad una
bilancia per mezzo di uncini conficcati nel collo e i demoni
tirano contro di loro carne rancida (tra cui la trippa, usata
per un tipico piatto romano). Questa punizione è dovuta al
peccato di frode, poiché hanno venduto carne avariata per
buona, o tipi di carne meno pregiata al posto di altri più
gustosi e soprattutto più costosi. I demoni, simulando proprio
il lavoro del macellaio, tagliuzzano le membra dei dannati come
per farne salsicce, seguendo accuratamente «tale arte dello
maciello»73.
Per
quel che riguarda il genere letterario delle visioni va
ricordata la prima, originalissima testimonianza dei
professionisti all'inferno: la Visio Thurkilli, scritta
in Inghilterra tra il 1207 e il 1208, che riporta il racconto
del viaggio fatto nell'aldilà da
Thurkillo, uomo di umili condizioni («ab homine rustico et
linguae Latinae imperito»)74, originario dell'Essex.
Thurkillo
descrive la presenza di un teatro infernale, dove i diavoli
assistono allo spettacolo-punizione delle anime dei dannati, che
sul palcoscenico ripropongono le azioni commesse in vita. Tra
gli attori della singolare rappresentazione ci sono un giudice,
un sacerdote, un agricoltore, un mugnaio e un mercante75.
Ulteriore
testimonianza della letteratura quattrocentesca è invece un
poemetto di origine campana privo di titolo, che, narrando le
pene dell'inferno visitato dal suo anonimo autore, recita:
[...]
Questi so' iudici con molti notari, capitani,
camerlenghi e giustizieri, li
qua(l)i fuero ingannati per denari e
non fecero la giustizia e li mistieri. Tristi
e tappini, che fuer(o) tanto avari, per
far grandi palazi e ricchi ostieri. Dello diritto ne
fecero torto: mo' stan(no)
con Sattenasso a malo porto.
[...]
Quelli de sotto sono fattuchiari,
che
del demonio fecero figura;
quelli
da lato so' li tavernari,
quelli
che danno la mala misura;
e
tutti
quell'altri sono li ferrari,
che
fan(no) li ferri contra omne mesura.
[...]
Là vidi mercanti e cagnatori [cambiavalute]
e
medici e molti spiziali,
vidivi
calzolari e sartori,
insiemora
con essi macellari
star(e)
nell'inferno a quelli gran calori,
perché
all'arte non iro legali.
Ognun
tenea manti lor(o) sentenze,
secondo
che avian facte le offense.
[...]
Delli orifici vi vo[glio] contare
come
in inferno stanno ben al fondo,
ché
si pensaro nell'oro lavorare,
che
mesticavano con ariento, rame e piombo;
ma
per la roba loro avantagiare,
non
resguardavano omo in questo mondo
e
non sguardaro amico né parente.
Nel
fondo dell'inferno iaccion veramente.
[...]
Qualunqua artefice sia che non face l'arte diritta come
deve fare in sempiterna secula là iace; per ciò è buono dinanzi pensare, e questo è verità e non è fallace, perché ognuno la deve ben fare; e
poi che c'entri non ne pòi uscire e
non ti iova il tuo repentire76.
Nell'inferno
della chiesa della SS. Annunziata particolare rilievo è dato ai
tiranni stretti tra le braccia di Satana. Benché possa essere
ragionevole l'ipotesi di un'allusione al re Luigi d'Angiò tra
questi peccatori, è evidente -in analogia con la tradizione
iconografica del Giudizio Universale che non di rado propone tra
i dannati alle pene infernali monarchi e prìncipi - una forte
denuncia contro il cattivo operato dei regnanti, i detentori del
potere temporale che rispondono dell'amministrazione della
giustizia umana. L'incapacità di tutelare gli abitanti dei
territori di propria giurisdizione, imprese militari ingiuste,
la vessazione della popolazione con tasse ingiustificate,
l'inabilità a garantire la giustizia, il tollerare che la frode
si insinui tra i commerci: tutto questo poteva realmente
conferire ai regnanti l'appellativo di tiranni. L'operato dei
regnanti ingiusti, la categoria di peccatori più numerosa in
questo affresco (sono ben nove!), viene così condannato
attraverso la collocazione dei diretti responsabili sul grembo
di Satana".
Vicino
ai tiranni ci sono coloro che, ricoprendo cariche pubbliche - i
loro atti sono l'emanazione del potere di un determinato
territorio -. hanno approfittato della propria posizione per
compiere atti illeciti: il giudice ed il notaio. Essi, non a
caso, siedono presso la stessa scrivania e conversano ira loro.
Il
giudice aveva molteplici occasioni per agire in modo scorretto,
e dunque per meritare le pene infernali: l'abuso di potere, la
negazione dell'appello nel corso di un processo, la negligenza
nell'assicurare una adeguata assistenza legale alle categorie più
deboli (poveri, orfani, vedove) e soprattutto l'emissione di
sentenze ingiuste in cambio di denaro. Questa è l'accusa più
frequente rivolta ai giudici: ne sono testimonianza, lo abbiamo
visto, le Visioni di santa Francesca Romana (dove ai
giudici falsari, condannati all'inferno, sono riservate delle
torture assai sofisticate che variano dalla immersione in
metalli liquefatti bollenti alla lacerazione delle membra per
mezzo di uncini) e lo stesso poemetto anonimo quattrocentesco,
che giustifica la dannazione di giudici e notai poiché per
denaro non hanno esercitato la giustizia78.
Il
fatto che giudice e notaio compaiano in questo affresco quasi in
qualità di «colleghi» potrebbe non essere casuale, e neanche
dovuto ad una scelta compositiva dell'artista esecutore del
Giudizio. Sarà da ricordare la presenza nell'Italia meridionale
della figura professionale del giudice ai contratti, figura
sopravvissuta proprio nell'area beneventana oltre il secolo XIV
e che poteva ancora essere presente all'epoca della
realizzazione dell'affresco a Sant'Agata de' Goti. Scrive
Alessandro Pratesi a proposito della genesi del documento
privato:
Nell'Italia
meridionale longobarda il rogatario [colui che provvede alla
stesura di un
documento], indicato pressoché costantemente come notarius, non
sottoscrive il
documento, ma si limita a dichiarare, in forma ora diretta ora
indiretta, di aver
proceduto alla sua stesura: la credibilità del suo scritto è
dunque affidata unicamente
alle sottoscrizioni testimoniali; ma è sintomatico il fatto che
con frequenza sempre
maggiore si ravvisa e nell'azione giuridica e nella
documentazione la
presenza di un giudice o di un funzionario amministrativo con
mansioni giudiziarie il quale, conferendo il suo riconoscimento
al rapporto giuridico, trasferisce tale
garanzia di stabilità al relativo documento, da lui stesso
sottoscritto: di qui si verrà
gradualmente formando quella categoria di giudici ai contratti,
tipica dell'Italia
meridionale, che avrà sanzione ufficiale nella legislazione di
Federico II. [...] La
sottoscrizione del giudice [continuerà a figurare] nel
territorio beneventano, ancora per lungo tempo, fino a tutto il
XIV secolo e oltre79.
Il
notaio, figura professionale di grande prestigio perché sapeva
scrivere, interpretare e tradurre dal latino al volgare e
viceversa, poteva essere volutamente l'estensore di un documento
il cui testo non corrispondeva a verità e che un giudice
consenziente poteva autenticare. Questo giustificherebbe
l'immagine della chiesa della SS. Annunziata in cui i due
professionisti sono ritratti insieme a confabulare.
11
notaio inoltre poteva prestare la propria opera per la
compilazione di contratti che sancivano atti ritenuti illeciti80.
Il
giudice ed il notaio sono circondati da altri professionisti
peccatori, condannati per essere principalmente degli
imbroglioni. Essi sono: il banchiere, il mugnaio, il macellaio,
l'oste, il sarchiatore ed il calzolaio.
La
presenza del banchiere all'inferno è presumibilmente da
attribuirsi a due cause: la prima è legata al suo ruolo
originario di cambiavalute che, seduto dietro un banco, proprio
come rappresentato nell'affresco della chiesa della SS.
Annunziata, praticava il cambio del denaro grazie alla
conoscenza dei tipi e dei valori delle monete in circolazione,
controllandone la lega. Dunque il banchiere poteva, se
disonesto, approfittare delle proprie competenze per truffare
coloro che cambiavano denaro in più modi: con cambi errati,
oppure fornendo consapevolmente denaro falso. Un ulteriore
motivo rendeva però il banchiere inviso alla Chiesa: l'accusa
di usura. Dal XII secolo la diffusione del commercio
internazionale impose metodi di pagamento alternativi al
trasporto di valuta; nacque la cambiale, mediante la quale il
prestatore, nel nostro caso il banchiere, forniva una somma di
denaro al debitore, il quale si impegnava a restituirla alla
scadenza stabilita, ma in altra valuta. Il contratto prevedeva
per il prestatore un interesse per l'operazione di cambio,
ovvero un guadagno sicuro su un prestito, guadagno che, non
essendo giustificato dal rischio incorso, veniva condannato
dalla Chiesa come usurano81. Il banchiere, dunque, se
usuraio e truffatore era inevitabilmente destinato alle pene
dell'inferno.
Altro
truffatore ritratto nell'inferno è il mugnaio82, la
cui attività era soggetta ad una precisa regolamentazione. In
determinati luoghi egli era tenuto a giurare, alla presenza di
pubblici ufficiali, di esercitare in modo onesto e corretto la
propria professione. La sua funzione, di assoluta utilità
pubblica, lo esentava dalle campagne militari. Era tenuto a
garantire la macinazione del grano per chiunque si presentasse
al suo mulino, seguendo un preciso ordine di precedenza, senza
possibilità alcuna di fare delle eccezioni. Egli doveva
riconsegnare la farina ricavata dalla macinazione del frumento
entro un termine preciso, stabilito dalla legge. Sempre per
legge doveva trattenere per sé, come pagamento per il lavoro
prestato, un determinato quantitativo di farina, in genere
equivalente ad un sedicesimo del frumento macinato (l'indice di
resa). Per evitare ogni possibile frode, le autorità locali
imponevano al mugnaio l'utilizzo di bilance da loro controllate
e marchiate; vigilavano affinché non aggiungesse al grano di
migliore qualità e maggiore prezzo cereali meno pregiati,
oppure, per aumentare il peso e la resa, cenere, gesso, calce.
Altra frode che il mugnaio era tenuto ad evitare era quella di
bagnare le farine, sempre per aumentare il peso del prodotto
macinato. Un'ultima operazione rendeva il mugnaio
particolarmente inviso: l'accumulo di ingenti quantitativi di
grano da rivendere in momenti particolarmente drammatici
(carestie, guerre, siccità) speculando sul prezzo83.
Questo spiega l'avversione della popolazione nei confronti di
una categoria che si arricchiva ed era pronta a lucrare su un
bene primario, la farina, principale mezzo di sostentamento per
le categorie più deboli.
L'accusa
di furto nei confronti del mugnaio non si è limitata al
Medioevo, ma si è diffusa nei secoli, e ancora sopravvive
attraverso detti, proverbi e canzoni popolari tanto da rendere
l'associazione mugnaio-ladro assai popolare: «Puoi cambiare il
mugnaio, non cambierai il ladro»; «Quando il topo è nel sacco
si prende per il mugnaio»84.
Degno
di nota un canto popolare toscano citato da Carlo Ginzburg:
Andai
all'inferno e vidi l'Anticristo e
per la barba aveva un molinaro, e sotto i piedi ci aveva un
tedesco, di qua e di là un oste e un macellaro: gli
domandai quale era il più tristo, e lui mi disse: Attento, or
te l'imparo. Riguarda
ben chi con le man rampina: è il mulinar dalla bianca farina.
Riguarda ben chi col le mani abbranca, è il mulinar dalla
farina bianca. Dalla
quartina se ne va allo staio; il più ladro tra tutti è il
mulinaio85.
Accanto
al mugnaio è ritratto il macellaio, rappresentante di una
categoria professionale tra le più diffuse; anch'egli dimora
all'inferno a causa del peccato di frode.
I
macellai erano sottoposti al controllo delle autorità pubbliche
che regolavano le attività di tutti i mestieri legati al
commercio di viveri; tali autorità controllavano, oltre alla
qualità delle merci, l'uniformità dei pesi e delle misure. Si
raccomandava ai macellai di collocare le diverse qualità di
carne in vendita su banchi differenti, al fine di evitare scambi
fraudolenti a danno dei clienti nel momento dell'acquisto. I
macellai erano tenuti a macellare gli animali nei luoghi e nei
tempi stabiliti dalla legge, affinché non fossero elusi i
controlli sul bestiame: si tendeva ad evitare per esempio la
macellazione di carni di animali morti per malattia o per cause
naturali86. Inoltre, secondo le norme che valevano
per qualsiasi operatore di bottega, il macellaio doveva vendere
la propria carne di giorno, poiché l'oscurità mascherava la
frode sulla qualità e sulla quantità della merce. Egli inoltre
non doveva attirare, con urla e schiamazzi, i clienti che si
erano avvicinati ai banchi dei colleghi; un richiamo dunque
all'etica professionale.
Appoggiato
allo stesso tavolo del macellaio c'è l'oste. Anche per questa
categoria professionale le occasioni che portavano al peccato, e
quindi alle pene infernali, erano molteplici. In primo luogo
l'oste lavorava nella taverna, il tempio dell'ubriachezza in cui
si incontravano briganti, giullari,
ladri, prostitute; viveva ed esercitava la propria
professione in un ambiente contaminato da peccatori. Egli
avrebbe dovuto impedire che nel proprio locale venissero
pronunciate bestemmie (alimentate dall'ubriachezza); che gli
avventori giocassero d'azzardo o si ubriacassero; avrebbe dovuto
vigilare su risse ed eventuali ferimenti (generati dalle perdite
al gioco); non avrebbe dovuto dare albergo alle prostitute (che
però incrementavano la clientela). Ma, a giudicare dall'alto
numero di procedimenti penali relativi ad accoltellamenti,
bestemmie e risse denunciati nelle locande87, gli
osti erano impegnati più a mescere e vendere vino e a tollerare
ogni sorta di clientela piuttosto che a garantire il decoro e
l'ordine pubblico. La taverna era una attraente alternativa alla
chiesa; i fedeli, dimentichi degli obblighi religiosi,
preferivano fermarsi a bere vino piuttosto che seguire la messa:
era il tempio del diavolo. Ma il peccato più contestato agli
osti era indubbiamente quello di frode per avidità di guadagno:
l'uso di mischiare il vino con l'acqua, o la vendita di un vino
al posto di un altro, differente per provenienza, qualità e
prezzo.
Accanto
all'oste è ritratto un contadino, o più in particolare il
sarchiatore.
Quali
tipi di frode poteva commettere un agricoltore durante lo
svolgimento della propria attività lavorativa? Il contadino
aveva la possibilità di truffare i propri padroni ed i
proprietari confinanti in più occasioni: derubando le colture;
cambiando le linee di confine dei campi durante i lavori di
aratura; danneggiando le coltivazioni ed i raccolti per incuria
o per vendetta88. Gli agricoltori dediti al furto e
alla frode venivano intimoriti attraverso la rappresentazione
della loro immagine tra i dannati alle pene infernali; nessuna
attenuante era prevista per le condizioni di estrema povertà in
cui vivevano.
Figura
anche, tra i dannati truffatori, il calzolaio. Come tutti gli
artigiani egli poteva lucrare illecitamente sul compenso per
l'opera prestata facendo pagare troppo il proprio lavoro, oppure
ingannando sulla qualità dei manufatti, vendendo prodotti
scadenti o fallati agli acquirenti. Per Bernardino da Siena il
calzolaio truffatore non appartiene a Dio: «Se tu se' di quelli
di Dio, sempre fai l'operazioni tue con carità, calde e
ardenti. Se tu se' del mondo, mai non farai opera calda, però
che in te non è carità. E però
considera te stesso, di quali tu se'. Piglia l'essemplo.
Se se' calzolaio, elli viene uno a te: - Che vuoi di queste
scarpette? - Io ne voglio quindici soldi. - Se tu le dai a meno,
tu non parlasti con carità, e hai mentito. Oltre. -O calzolaio,
fammi un paio di scarpette buone. - Elli dice: - Io te le farò
migliori che sieno in Siena. - Se non le farai come tu hai
detto, tu non se' di quelli di Dio»89.
Ancora
un altro artigiano viene ritratto tra i dannati: è il fabbro. A
questo artefice era contestato il cattivo uso della propria
arte: la costruzione di armi - spade, frecce, balestre -
destinate ad essere utilizzate in combattimenti, guerre e duelli
lo rendeva indirettamente responsabile di essere un promotore di
spargimenti di sangue, accoltellamenti, omicidii, rapine. Il
poemetto anonimo campano sopra citato giustifica la presenza dei
fabbri all'inferno poiché «fan(no) li ferri contre omne mesura»90;
la frase potrebbe alludere, confermando quanto detto, alla
dimensione delle armi, realizzate in misure sproporzionate e
quindi più pericolose, ma anche alla produzione di manufatti
che non rispondevano alle grandezze richieste dagli acquirenti,
nella cui realizzazione il fabbro poteva guadagnare lucrando
sulla materia prima.
Alla
destra di
Satana sono stati invece immortalati
l'usuraio e la iigura femminile che potrebbe
simboleggiare una prostituta.
L'usuraio
avido di guadagno è punito perché si arroga il diritto di
arricchirsi attraverso la riscossione di un interesse come
corrispettivo di una prestazione che non contempla né la
produzione, né la trasformazione di beni materiali concreti (e
quindi neanche un margine di rischio). L'usuraio vende il tempo
che intercorre tra il momento in cui presta denaro e quello in
cui viene rimborsato con un plusvalore; ma il tempo appartiene
solo a Dio, egli perciò trae profitto dalla vendita di un bene
che non gli appartiene. Ammoniva san Bernardino:
[...]
ancora sono venditori della grazia di Dio. Natura di Dio si è
dare la grazia a noi;
prestare a usura è vendere la grazia di Dio. El tempo è dato a
noi per grazia di
Dio, e tu el vendi, quando vendi al tempo, più che a contanti.
Inverso el prossimo,
peccano grandemente. Che cosa è usura, usuraio? È una cosa di
crudeltà. In alcuno
luogo è chiamato el prestatore, el piatoso, ma è molto
crudele. Dirà alcuno:
- E non si può fare senza prestatori, e servono i bisognosi.
Come
gli servono? Isbudellandogli, e, se sono poveri, gli fanno più
poveri. Seconda malignità. L'usuraio è arca d'iplochesia. Non
vedi tu che gli pare fare servigio
al prossimo prestandogli a usura, e radelo insino all'osso?
Gli
usurai sono di schiatta di barbèri che radono gli uomini, anzi
gli pelano infino
che ne viene il sangue vivo. Terzamente ancora, contro al
prossimo è l'usuraio
ispilonca di landroncelleria. Gli usurai son ladri. Non sai tu
che Cristo, a' ventuno
capitoli di san Matteo, quando andò nel tempio che cacciò
fuori gli usurai e gli
altri, e' disse loro: «La casa mia debb'essere casa d'orazioni,
e voi l'avete fatta spilonca di ladroni»?
Sicché
gli chiama ladroni gli usurai,
non che ladri'91.
Gli
esegeti e i predicatori medievali erano concordi: l'usuraio era
condannato alle pene eterne senza alcuna possibilità di appello92.
Forte doveva essere anche l'avversione degli uomini nei
confronti di questo professionista, vedendo in lui, come ancora
accade oggi, uno speculatore sui bisogni e sulle difficoltà
altrui.
All'estrema
destra dell'inferno, sotto alla raffigurazione del limbo, è
ritratta la prostituta. E l'istigatrice del peccato di lussuria;
il suo peccare danneggia se stessa ed i clienti che seduce. La
donna sembra intenta ad affilare le armi della propria arte, la
seduzione, impugnando nella mano destra una piccola bottiglia di
profumo e nella sinistra uno specchio. Attraverso questa figura
viene espressa la condanna di una operazione ingannevole: la
donna, ricorrendo ai belletti e alla cura dei capelli, propone
agli altri, in particolare agli uomini, una immagine di sé
migliore, ma falsa, perché non corrisponde all'autenticità
della propria figura93.
L'usuraio
e la prostituta sono puniti in quanto esercitano professioni
condannate nella loro totalità e non perché queste possano
essere esercitate anche in maniera fraudolenta. In questi due
casi reputo perciò più corretto parlare di condanna dello status
peccaminoso, piuttosto che di condanna del peccato ad
status. Forse anche l'autore dell'affresco della chiesa
della SS. Annunziata di Sant'Agata de' Goti ha voluto
consapevolmente separare questi due peccatori dal resto dei
dannati, ponendoli alla destra di Satana e non raggruppandoli
insieme agli altri professionisti, posti invece alla sinistra
del demone.
L'affresco
del Giudizio Universale, nel suo insieme, era l'ultima immagine
che gli uomini e le donne del Medioevo vedevano uscendo dalla
chiesa al termine delle funzioni religiose. Esso rappresenta la
testimonianza, in chiave iconografica, del pensiero cristiano,
che promette ricompense o castighi dopo la morte e si sforza di
indirizzare gli usi e i costumi degli uomini e delle donne in
funzione dell'aldilà. Lo scopo di queste immagini era
didattico; tutti coloro che osservavano l'affresco erano
portati, volentieri o meno, ad una riflessione sulle azioni
compiute.
In
questo affresco viene tradotta in immagini la conflittualità
sociale scaturita dal mancato rispetto delle regole da parte di
categorie divenute protagoniste della scena economica ed
amministrativa della società. Una conflittualità denunciata
dallo scenario cupo (soprattutto rispetto al paradiso), dalle
torture e in particolare dal ritratto inconfondibile dei
peccatori, la cui identità è palesata grazie alle didascalie
poste accanto a ciascuno di loro; come non bastasse, sono anche
immortalati nell'esercizio della propria attività, muniti degli
strumenti utili alla propria arte. Artigiani e mercanti sono
condannati per gli eccessi di lucro, per l'avarizia; la stessa
condanna è imputabile ai giudici, ai notai ed ai banchieri che,
pur non vendendo materie prime o manufatti, forniscono
prestazioni professionali compiendo atti illeciti per cupidigia
di denaro.
Questo
Giudizio Universale, con il suo programma iconografico,
testimonia che per una società articolata e complessa la
semplice condanna dei vizi capitali e in particolare
dell'avarizia non è più adeguata nel XV secolo: troppo
generica per indurre tutte le categorie di peccatori alla
contrizione. La natura del peccato si palesa maggiormente quando
l'immagine mostra in modo inequivocabile la punizione del
peccatore. Così i calzolai, i giudici, i notai, gli osti, i
macellai, gli agricoltori, i banchieri, che guardavano la
propria immagine ritratta nell'inferno, erano sollecitati a
riflettere sul proprio comportamento in una prospettiva
escatologica. La rappresentazione delle punizioni era una
minaccia assai efficace per atterrire ed ammonire i peccatori.
Coloro invece che avevano subito il torto o la truffa da parte
di questi professionisti potevano forse rallegrarsi, riponendo
nella giustizia divina le disattese speranze in quella terrena.
Nella
raffigurazione dell'inferno della chiesa della SS. Annunziata è
evidente che tutti i peccatori sono richiamati dal monito del memento
mori ad una condotta di vita conforme agli ideali della
Chiesa; ma alcuni lo sono più degli altri. La condanna forte
sembra essere per i cattivi governanti, i tiranni, ritratti in
gran numero - è l'unica tra le categorie raffigurate ad avere
tanti rappresentanti - al centro dello scenario infernale. Essi
non sono soltanto ritenuti responsabili degli atti illeciti
compiuti in prima persona, ma anche degli esiti nefasti della
loro condotta, che ha consentito il proliferare di ingiustizie.
Gli attori di queste ingiustizie sono tutti intorno a loro:
professionisti corrotti (giudice e notaio), truffatori
(banchiere, mugnaio, macellaio, oste, sarchiatore e calzolaio),
peccatori incorreggibili (usuraio, prostituta).
Questo
monito rimaneva negli occhi e nel cuore dei fedeli alle prese
con occupazioni che sarebbero potute continuare, come tragica
punizione, nell'aldilà. Il Cristo ritratto nella mandorla,
enorme per dimensioni ed austero nel mostrare le piaghe in virtù
delle quali giudica l'umanità, è il trionfatore della scena. I
tiranni appaiono, rispetto all'immagine del Giudice, minuscoli,
così che il loro prestigio, la loro importanza, e dunque il
loro potere terreno, siano palesemente ridimensionati. Ad
evidenziarne l'impotenza i loro volti sono impauriti; corone e
copricapi sono simboli di un potere ormai perduto.
Con
la dannazione dei detentori del potere terreno viene condannato
il cattivo esercizio della giustizia umana: è l'affermazione
solenne del primato del Cristo Giudice sulla giustizia terrena.
1
Testi dì riferimento per lo studio iconografico del
Giudizio Universale sono: J. Baschet, Les justices de l'audelà.
Les représentations de l'enfer en France et en Italie (XIIe-XVVe
siècle), Ecole Frangaise, Rome 1993; Y. Christe, Il
Giudizio Universale nell'arte del Medioevo, Jaca Book,
Milano 2000.
2
E. Male, Le origini del gotico: l'iconografia
medievale e le sue fonti, Jaca Book, Milano 1986, p. 19.
3
L'apparizione
di Cristo in cielo nel giorno del Giudizio è cosi annunciata
nei Vangeli: «Et tunc paravit signum Filii hominis in caelo et
tunc planget omnes tribus terrae et videbunt Filium hominis
venientem in nubibus caeli cum virtute multa et maiestate, et
mittet angelos suos cum tuba et voce magna et congregabunt
electos eius a quattuor ventis a summis caelorum usque ad
terminos eorum» («Allora comparirà nel cielo il segno del
Figlio dell'Uomo, tutte le tribù della terra si batteranno il
petto e vedranno il Figlio dell'Uomo venire sulle nubi del cielo
con gran potenza e gloria. Egli manderà i suoi angeli che, con
tromba dallo squillo potente, raduneranno i suoi eletti dai
quattro venti, da un'estremità all'altra dei cieli»): Matteo,
24, 30-31 ; «Et tunc videbunt Filium hominis venientem in
nubibus cum virtute multa et gloria et tunc mittet angelos suos
et congregabit electos suos a quattuor ventis a summo terrae
usque ad summum caeli» («Allora si vedrà il Figlio dell'Uomo
venire sulle nubi, con grande potenza e gloria. Allora manderà
i suoi angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti,
dall'estremità della terra fino all'estremità del cielo»):
Marco, 13,26-27.
4
«Et qui sedebat similis erat aspectui lapidis iaspidis
et sardini et iris erat in circuitu sedis similis visioni
smaragdinae» («Colui che vi sedeva era simile nell'aspetto
alla pietra di diaspro e disardio e il trono era circondato da
un'iride simile allo smeraldo»): Apocalisse, 4,3; «Et super
firmamentum quod erat imminens capiti eorum quasi aspectus
lapidis sapphyri similitudo throni et super similitudinem throni
similitudo quasi aspectus hominis desuper. Et vidi quasi speciem
electri velut aspectum ignis intrinsecus eius per circuitum a
lumbis eius et desuper et a lumbis eius usque deorsum vidi quasi
speciem ignis splendentis in circuitu velut aspectum arcus cum
fuerit in nube in die pluviae hic erat aspectus splendoris per
gyrum» («E sul firmamento, che era sopra le loro teste,
apparve come una pietra di zaffiro, in forma di trono, e su
questa specie di trono, in alto, una figura in sembianze d'uomo.
Da quelli che parevano i suoi fianchi in su, era come un fulgore
di metallo splendente, e dai suoi fianchi in giù, come una
visione di fuoco, con tutt'intorno uno splendore, simile a
quello dell'arcobaleno che appare tra le nubi in un giorno di
pioggia»): Ezechiele, 1, 26-28.
5
«Haec quoque dixit Deus ad Noe et ad filios eius cum eo:
Ecce ego statuam pactum meum vobiscum et cum semine vestro post
vos et ad omnem animam viventem quae est vobiscum tam in
volucribus quam in iumentis et pecudibus terrae cunctis quae
egressa sunt de arca et universis bestiis terrae statuam pactum
meum vobiscum et nequaquam ultra interficietur omnis caro aquis
diluvi! neque erit deinceps diluvium dissipans terram. Dixitque
Deus: Hoc signum foederis quod do inter me et vos et ad omnem
animam viventem quae est vobiscum in generationes sempiternas
arcum meum ponam in nubibus et erit signum foederis inter me et
inter terram, cumque obduxero nubibus caelum apparebit arcus
meus in nubibus et recordabor foederis mei vobiscum et cum omni
anima vivente quae carnem vegetat et non erunt ultra aquae
diluvii ad delendam universam carnem eritque arcus in nubibus et
videbo illum et recordabor foederis sempiterni quod pactum est
inter Deum et inter omnem animam viventem universae carnis quae
est super terram. Dixitque Deus: Noe hoc erit signum foederis
quod constimi inter me et inter omnem carnem super terram» («Poi
Dio parlò a Noè e ai suoi figli: Ecco, io concludo il mio
patto con voi e i vostri discendenti che verranno dopo di voi, e
con tutti gli esseri animati che sono tra voi: uccelli, armenti
e tutte le bestie che sono con voi e sono usciti dall'arca, e
con ogni specie di animali terrestri. Stabilisco la mia alleanza
con voi, in nessun modo la carne sarà più distrutta dalle
acque del diluvio, né ci sarà un diluvio a sconvolgere la
terra. Poi Dio disse: Questo sarà il segno del patto che io
faccio tra me e voi e tutti gli esseri viventi che sono con voi,
per le generazioni future. Io pongo il mio arco nelle nubi e
servirà di segno del patto fra me e la terra. Quando accumulerò
le nubi sopra la terra e si vedrà l'arcobaleno nelle nubi,
allora io mi ricorderò del patto fra me e voi e tutti gli
esseri viventi di ogni specie, e le acque non diventeranno più
un diluvio per distruggere ogni carne. Quando l'arco sarà nelle
nubi, io lo vedrò e mi ricorderò del patto perpetuo fra Dio
e ogni essere vivente, di qualunque specie, che è sulla
terra. E Dio disse a Noè: Questo è il segno del patto che
stabilisco fra me e ogni carne che è sulla terra»): Genesi, 9,
8-17.
6
«Dum
haec autem loquuntur Iesus stetit in medio eorum et dicit eis:
Pax vobis ego sum, nolite timere. Conturbati vero et conterriti
existimabant se spiritum videre. Et dixit eis: Quid turbati
estis et cogitationes ascendunt in corda vestra? Videte manus
meas et pedes, quia ipse ego sum. Palpate et videte, quia
spiritus carnem et ossa non habet sicut me videtis habere. Et
cum hoc dixisset ostendit eis manus et pedes»: Luca 24, 36-40;
«... nisi videro in manibus eius figuram clavorum et mittam
digitum meum in locum clavorum et mittam manum meam in latus
eius non credam»: Giovanni, 20, 25.
7
«Vos
autem estis qui permansistis mecum in temptationibus meis, et
ego dispono vobis, sicut disposuit mihi Pater meus regnum, ut
edatis et bibatis super mensam meam in regno et sedeatis super
thronos iudicantes duodecim tribus Israhel»: Luca, 22, 28-30.
8
«Cum autem
venerit Filius hominis in maiestate sua et omnes angeli cum eo,
tunc sedebit super sedem maiestatis suae et congregabuntur ante
eum omnes gentes et separabit eos ab invicem sicut pastor
segregat oves ab hedis et statuet oves quidem a dextris suis
hedos autem a sinistris. Tunc dicet rex his qui a dextris eius
erunt: Venite benedicti Patris mei, possidete paratum vobis
regnum a constitutione mundi. Esurivi enim et dedistis mihi
manducare, sitivi et dedistis mihi bibere, hospes eram et
collexistis me, nudus et operuistis me, infirmus et visitastis
me, in carcere eram et venistis ad me. Tunc respondebunt ei
iusti dicentes: Domine, quando te vidimus esurientem et pavimus
sitientem et dedimus tibi potum? Quando autem te vidimus
hospitem et colleximus te aut nudum et cooperuimus? Aut quando
te vidimus infirmum aut in carcere et venimus ad te? Et
respondens rex dicet: Illis amen dico vobis quamdiu fecistis uni
de his fratribus meis minimis mihi fecistis. Tunc dicet et his
qui a sinistris erunt: Discedite a me maledirti in ignem
aeternum qui paratus est diabolo et angelis eius. Esurivi enim
et non dedistis mihi manducare; sitivi et non dedistis mihi
potum; hospes eram et non collexistis me, nudus et non
operuistis me, infirmus et in carcere et non visitastis me. Tunc
respondebunt et ipsi dicentes: Domine, quando te vidimus
esurientem aut sitientem aut hospitem aut nudum aut infirmum vel
in carcere et non ministravimus tibi? Tunc respondebit illis
dicens: Amen, dico vobis quamdiu non fecistis uni de minoribus
his nec mihi fecistis. Et ibunt hii in supplicium aeternum,
iusti autem in vitam aeternam» («Quando verrà il Figlio
dell'Uomo nella sua maestà con tutti gli angeli, si assiderà
sul trono della sua gloria: e tutte le nazioni saranno radunate
davanti a lui, ma egli separerà gli uni dagli altri, come il
pastore separa le pecore dai capri; e metterà le pecore alla
sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli
che sono alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio,
prendete possesso del regno preparato per voi sin dalla
creazione del mondo. Perché ebbi fame e mi deste da mangiare;
ebbi sete e mi deste da bere; fui pellegrino e mi albergaste;
ero nudo e mi rivestiste; infermo e mi visitaste; carcerato e
veniste a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore,
quando mai ti vedemmo affamato e ti demmo ristoro; assetato e ti
demmo da bere? Quando ti vedemmo pellegrino e ti alloggiammo, o
nudo e ti vestimmo? Quando ti vedemmo infermo o carcerato e siam
venuti a visitarti? E il re risponderà loro: In verità vi
dico: ogni volta che avete fatto questo a uno dei più piccoli
di questi miei fratelli, l'avete fatto a me. Infine dirà anche
a quelli che saranno alla sua sinistra: Andate lontano da me,
maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per gli
angeli suoi. Perché ebbi fame e non mi deste da mangiare; ebbi
sete e non mi deste da bere; fui pellegrino e non mi albergaste;
nudo e non mi rivestiste; infermo e carcerato e non mi
visitaste. Allora anche questi gli risponderanno: Signore,
quando mai ti abbiamo visto affamato, o assetato, o pellegrino,
o nudo, o infermo, o carcerato, e non t'abbiamo assistito? Ma
egli risponderà loro: In verità vi dico: ogni volta che non lo
avete fatto ad uno di questi più piccoli, non l'avete fatto a
me. E costoro andranno all'eterno supplizio, i giusti invece
alla vita eterna»): Matteo, 25, 31-46.
9
«Et mittet angelos suos cum tuba et voce magna et
congregabunt electos eius a quattuor ventis a summis caelorum
usque ad terminos eorum»: Matteo, 24, 31; «Et tunc mittet
angelos suos et congregabit electos suos a quattuor ventis a
summo terrae usque ad summum caeli»: Marco, 13,27.
10
Cfr. I Corinzi, 15,51-52: «Ecce, mysterium vobis dico,
omnes quidem resurgemus, sed non omnes inmutabimur. In momento,
in ictu oculi, in novissima tuba canet enim et mortui resurgent
incorrupti et nos inmutabimur» («Ecco vi svelo un mistero: noi
non morremo tutti, ma tutti saremo trasformati, in un attimo, in
un batter d'occhio, al suono dell'ultima tromba. Squillerà,
infatti, la tromba e i morti risorgeranno incorruttibili e noi
saremo trasformati»).
11
Male, Le origini del gotico cit., p. 362. La
resurrezione nel giorno del Giudizio di uomini e donne con i
corpi dell'età di trent'anni viene testimoniata da Onorio
Augustodunense (Speculum Ecclesiale, in Migne, Patrologia
Latina [d'ora in avanti citata come PL], CLXXII, col. 1085):
«Resurgent autem omnes mortui ea aetate et mensura qua
Christus resurrexit, scilicet XXX annorum». L'età perfetta,
ovvero i trent'anni attribuiti a Cristo, deriva invece da un
passo di Agostino (Cantra Faustum, XII, 14; PL, XLII,
col. 262) che associa l'età di Gesù ai trenta cubiti di
altezza dell'Arca di Noè: «Quod eius altitudo triginta cubitis
surgit, quem numerum decies habet in trecentis cubitis
longitudo: quia Christus est altitudo nostra, qui triginta
annorum aetatem gerens doctrinam evangelicam consecravit...».
12
«Et Dominus in aeternum permanet / Paravit in iudicio
thronum suum / Et ipse iudicabitorbem terrae in aequitate /
Iudicabit populos in iustitia»; Salmi, 9, 8-9.
13
«Et conversus sum ut viderem vocem quae loquebatur mecum
et conversus vidi septem candelabra aurea et in medio septem
candelabrorum similem Filio hominis vestitum podere et
praecinctum ad mamillas zonam auream»: Apocalisse, 1, 12-13.
14
«Et cum aperuisset quintum sigillum vidi subtus altare
animas interfectorum propter verbum Dei et propter testimonium
quod habebant, et clamabant voce magna dicentes: Usquequo Domine
sanctus et verus non iudicas et vindicas sanguinem nostrum de
his qui habitant in tera?»: Apocalisse, 6, 9-10.
15
Cfr. Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, ed.
italiana a cura di A. e L. Vitale Brovarone, Einaudi, Torino
1995, pp. 75-79.
16
Ancora oggi, nella liturgia del 28 dicembre, giorno in
cui il calendario ricorda i santi Innocenti, l'antifona
d'ingresso recita: «I santi Innocenti furono uccisi per Cristo,
e in cielo lo seguono, Agnello senza macchia, cantando sempre:
Gloria a te, o Signore».
17
«Et datae sunt illis singulae stolae albae et dictum est
illis ut requiescerunt tempus adhuc modicum donec impleantur
conservi eorum et fratres eorum qui interficiendi sunt sicut et
illi»: Apocalisse, 6, 11.
18
Di quest'ultimo non è più leggibile il nome, ma in base
alla tradizione iconografica si può con certezza affermare la
sua identità. L'immagine è un richiamo ai passi evangelici di
Matteo (22, 31-32): «De resurrectione autem mortuorum non
legistis quod dictum est a Deo dicente vobis? Ego sum Deus
Abraham et Deus Isaac et Deus Iacob, non est Deus mortuorum sed
viventium»
(«Quanto poi alla risurrezione dei morti, non avete letto ciò
che Dio vi disse? Io sono il Dio d'Abramo, il Dio d'Isacco, il
Dio di Giacobbe, non è il Dio dei morti, ma dei vivi»); Marco
(12, 26- 27): «De mortuis autem quod resurgant non legistis in
libro Mosi super rubum quomodo dixerit illi Deus inquiens: Ego
sum Deus Abraham et Deus Isaac et Deus Iacob? Non est deus
mortuorum sed vivorum» («Quanto poi alla risurrezione dei
morti, non avete letto nel libro di Mosè, nell'episodio del
roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo,
il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe? Non è il Dio dei morti,
ma dei vivi»); Luca (13, 28): «Ibi erit fletus et stridor
dentium, cum videritis Abraham et Isaac et Iacob et omnes
prophetas in regno Dei, vos autem expelli foras» («Là vi sarà
pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e
Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, e voi cacciati
fuori»),
19 «Factum
est autem ut moreretur mendicus et portaretur ab angelis in
sinum Abrahae»: Luca, 16, 22.
20
Cfr. PL, XXXV,
col.
1350.
21
Cfr. Summa Theologiae, q. 69, a. 4.
22
A. Simon, Abramo, in Enciclopedia delVArte
Medievale, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani,
Roma 2000, voi. I, pp. 58-60; J. Baschet, Anima, ivi, pp.
804-815.
23
«Vidit igitur mulier quod bonum esset lignum ad
vescendum et pulchrum oculis aspectuque delectabile et tulit de
fructu illius et comedit deditque viro suo qui comedit. Et
aperti sunt oculi amborum cumque cognovissent esse se nudos
consuerunt folia ficus et fecerunt sibi perizomata» («La donna
intanto aveva osservato che l'albero era buono a mangiarsi,
piacevole all'occhio e desiderabile per acquistare il sapere.
Colse quindi il frutto, ne mangiò e ne dette anche a suo marito
che stava con lei ed egli ne mangiò. Si aprirono allora gli
occhi di tutt'e due e s'avvidero che erano nudi; cucirono delle
foglie di fico e se ne fecero delle cinture»): Genesi, 3, 6-7.
24
«Vincenti dabo edere de Ugno vitae quod est in Paradiso
Dei mei»: Apocalisse, 2, 7.
25
C. Frugoni, Alberi (in paradiso voluptatis), in Cambiente
vegetale nell'Alto Medioevo. Spoleto, 30 marzo-5 aprile 1989,
XXXVII settimana di studio del Centro Italiano di Studi sullAlto
Medioevo, CISAM, Spoleto 1990, p. 730. «Il significato
positivo della palma [...] è rafforzato anche da un racconto
contenuto nel Vangelo apocrifo dello Pseudo-Matteo (cap. XX);
durante la fuga in Egitto questo albero si china verso Maria
offrendo i suoi frutti a lei e alla sacra famiglia esausta; il
piccolo Gesù ordina poi all'albero di crescere anche nel
paradiso celeste, per essere a disposizione
dei santi»: ivi, p. 727 (cfr. 7 Vangeli apocrifi, a cura
di M. Craveri, Einaudi, Torino 1969, pp. 86-87).
26
Relativamente alle
contrapposizioni tra Arbor mala e Arbor bona scrive
Chiara Frugoni: «[Nel Genesi] viene precisato che al
centro dell'Eden sono l'Albero della Vita e l'Albero della scienza.
La duplice proprietà di quest'ultimo introduce la nozione
dell'esistenza del male, che si incunea
nella vita appena iniziata, nell'opera perfetta di Dio. La flora
del paradiso terrestre rispetto alla
fauna e agli altri elementi, tutti neutri nella loro bontà,
suggerisce immediatamente all'esegesi cristiana una
interpretazione etico-simbolica; costringe e limita la
riflessione entro un rapporto binario, nella rigida
contrapposizione dell'Arbor bona e dell'Arbor mala, dell'Albero
verde e dell'Albero secco, Chiesa e Sinagoga, Albero delle virtù, Albero dei vizi
[...]»: Frugoni, Alberi cit., pp. 730-731
27
«Iam enim securis ad
radicem arborum posita est omnis ergo arbor quae non facit
fructum bonum exciditur et in ignem mittitur»: Matteo,
3, 10.
28
La Visio Pauli, apocalisse
giudaico-cristiana del III secolo, rappresenta il punto di
partenza, insieme alla
Apocalisse di Pietro (II secolo), per l'elaborazione del
modello infernale nella tradizione cristiana. L'interpretazione
del passo dello stesso san Paolo (II Corinzi, 12,2-4), in cui dichiara
di essere stato rapito al terzo cielo, diede luogo a una diffusa
letteratura sul viaggio dell'apostolo nell'oltretomba. Celebre
è la testimonianza di Dante (Inferno, II, 28-30), che
accenna al viaggio dell'apostolo nell'aldilà. Sulla fortunata
diffusione di questo testo si veda T. Silverstein, Visiones
et revelaciones Sancti Pauli: una nuova tradizione di testi
latini nel Medio Evo, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1974.
29
«Adhuc ea loquente
vidi tres venientes a longe pulcros valde speciae Christi, et
imagines eorum fulgentes, <et> angelos ipsorum, et
interrogavi: Qui sunt hii, domine? Et dixit mihi: Nescis eos? Et
dixi: Nescio, domine. Et respondit: Hii sunt patres populi,
Abraham, Hysaac, et Iacob.
Et venientes iuxta salutaverunt me et dixerunt: Ave, Paule,
dilectissime dei et hominum; beatus est qui vim sustinet
propter dominum. Et respondit mihi Abraham <et> dixit: Hic
est filius meus Hysaac, et
Iacob dilectissimus meus, et cognovimus dominum et secuti sumus
eum; beati omnes qui crediderunt verbo tuo, ut possint
hereditare regnum dei per laborem, abrenunciacione et
sanctificatione et humilitate et caritate et mansuetudine et
recta fide ad dominum; et nos quoque habuimus devocionem ad
dominum quem tu praedicas testamento ut omnes anime credencium
ei adsistamus et ministremus sicut patres ministrant filiis suis»:
Visio Pauli, in M.R. James,
Apocrypha Anecdota. A Collection of Thirteen
Apocryphal Books and Pragments, Cambridge University Press, Cambridge 1893, p.
38. Il
brano citato si riferisce alla visione del paradiso. La traduzione italiana è tratta da Apocalissi Apocrife, a cura di
A.M. Di Nola, Tea, Milano 1993, pp. 87-88.
30
«Beati qui lavant stolas suas ut sit potestas eorum in
Ugno vitae et per portas intrent in civitatem»:
Apocalisse, 22, 14.
31
San
Leonardo aveva ottenuto dall'autorità laica il privilegio di
chiedere la liberazione dei prigionieri,
e la sua fama fu così grande che i carcerati, ovunque lo
invocassero, vedevano le loro catene rompersi miracolosamente.
Per questo motivo è raffigurato con delle catene e ceppi in mano.
Cfr. Bibliotheca Sanctorum, voi. VII, Istituto Giovanni
XXIII, Roma 1966, coll. 1198-1208.
32
Giuseppe Scavizzi, nell'articolo Nuovi affreschi del
Quattrocento campano (in «Bollettino d'Arte»
[1962], pp. 196-202), pubblicato poco tempo dopo la scoperta
dell'affresco, riconosceva
nella schiera dei santi Caterina, Lorenzo o Leonardo, san
Francesco o Domenico, san Giacomo e san Benedetto. Ma il secondo
santo raffigurato è senza dubbio Leonardo, ha la catena ben visibile,
non una graticola. Il terzo santo raffigurato non è Francesco
(non ha le stimmate), e nemmeno Domenico, poiché l'abito
domenicano prevede la tunica e lo scapolare con cappuccio bianchi
e mantello con cappuccio nero, mentre il santo dell'affresco
indossa il saio marrone, come quello
francescano; esso inoltre tiene in mano un libro, attributo che
caratterizza Antonio da Padova, francescano.
33
Ivi, p. 196.
34
E Navarro, Ferrante
Maglione, Alvaro Pirez d'Evora ed alcuni aspetti della pittura
tardogotica a
Napoli e in Campania, in
«Bollettino d'Arte», n. 78 (1993), p. 75, nota 38.
35
L'ipotesi è
riportata da Francesco Abbate in Id., I. Di Resta, he città
nella storia d'Italia. Sant'Agata
dei Goti, Laterza,
Roma-Bari 1984, p. 48, e dallo stesso autore in Affreschi
tardogotici a Maddaloni, in I
segreti del Medioevo. Gli affreschi di Maddaloni, a cura di
M.R. Rienzo, Maddaloni 1992, p. 9. In entrambi i saggi, a
causa di un refuso, si parla di papa Urbano IV (1261-1264)
invece che di papa Urbano VI.
36
Cfr. Abbate, Affreschi tardogotici a Maddaloni, cit.,
p. 9.
37
La parola «Urbanus» è cambiata in «Julianus» con
l'apposizione iniziale della J, mantiene le lettere u, a, n e il
segno abbreviativo us, mentre le lettere l ed i
vengono sovrapposte, con opportune cancellazioni, surei.
Alla parola papa viene cancellata la p iniziale, la a finale
viene cambiata in o a cui segue ex novo «stata» («apostata»).
Lo studio della didascalia è stato effettuato grazie alla
documentazione fotografica precedente il restauro dell'affresco,
concessa gentilmente dal parroco della chiesa Franco Iannotta.
38
Dante, Inferno, XXVIII, vv. 22-63.
39
Cfr.
M. Jacoviello, Un papa napoletano nello Scisma d'Occidente:
Bartolomeo Frignano (1378-1389), in «Campania Sacra», 21
(1990), pp. 72-95; S. Fodale, La politica napoletana di
Urbano VI, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1973.
40
Seguo sempre M. Jacoviello e S. Fodale (cfr. nota 39).
41
Cfr. nota 39.
42
Si vedano sempre M. Jacoviello e S. Fodale (cfr. nota
39).
43
Cfr. G. Ortalli, «... pingantur in Palatio...». La
pittura infamante nei secoli XIII-XVI, Jouvence, Roma 1979.
44 Cfr. J. Baschet, Lieu sacré, lieu d'images. Les
fresques de Bominaco (Abruzzes, 1263). Thèmes, parcours,
fonctions, Ecole Francaise de Rome, Rome 1991, p. 74. Il
ruolo che l'arcangelo Michele ricopre è il medesimo del dio
romano Mercurio, che guidava le anime dei defunti agli inferi.
San Michele fu identificato come santo psicopompo
(accompagnatore di anime) nei primi secoli del cristianesimo,
quando la Chiesa propagandò il suo culto tra i Gallo-romani
devoti a Mercurio; il culto dell'arcangelo prese il sopravvento
su quello del dio pagano e la figura di Michele assunse gli
attributi che erano stati propri di Mercurio: Male, Le
origini del gotico cit., p. 363.
45
Giordano da Pisa, Prediche recitate in Firenze dal
1303 al 1306 ed ora per la prima volta pubblicate, a cura di
C. Moreni, Magheri, Firenze 1831, vol. II, Predica LXV, pp.
268-270.
46
Dei vizi sono visibili solo le iscrizioni relative alla
terza figura (gula) e alla settima [acidia) e
parzialmente alla prima (...rb... per superbia).
47
La rappresentazione delle virtù nell'atto di schiacciare
i vizi capitali fu tipica dell'arte romanica francese. Molto
simile alla psicomachia del Giudizio Universale della chiesa
della SS. Annunziata è la raffigurazione scultorea dello stesso
tema presente sull'esterno della cattedrale di Strasburgo (c.
1280).
48
La teorizzazione delle quattro virtù cardinali
appartiene al mondo antico greco e romano: sviluppata da Platone
(nella Repubblica) e da Cicerone (De officiis), fu
trasmessa al Medioevo attraverso sant'Ambrogio (De officiis
ministrorum, I, 50; PL, XVI, col. 106). Le tre virtù
teologali sono invece una creazione cristiana: san Paolo indica
la fede, la speranza e la carità quali virtù specificamente
cristiane (I Tessalonicesi, 1, 3; I Corinzi, 22, 13). Proprio la
differenza di origine dei due gruppi portò spesso alla loro
rappresentazione iconografica separata. Solo a partire dal XII
secolo vennero a costituire un settenario di virtù. Ruolo
determinante per lo sviluppo del tema fu la Psychomachia di
Prudenzio (V secolo), poema allegorico in cui sono descritte le
battaglie tra virtù e vizi, tutti personificati da figure
femminili. Cfr. A. Katzenellenbogen, Allegories of the Virtutes and Vices in
Mediaeval Art. From Early Christian Times to the Thirteenth
Century, The Warburg Institute, London 1939, rist. Kraus,
Nendeln 1968, in particolare pp. 10, 16-17, 38-43.
49
La didascalia è errata: sacrilegius sta per sacrilegus.
50
II falso testimone potrebbe - per il contrappasso che
associa al peccato la punizione mediante l'organo che ha
partecipato all'azione peccaminosa - essere anche appeso per la
lingua, ma in questo caso si confonderebbe con il bestemmiatore
a cui è toccata questa sorte.
51
Cito il testo in volgare tradito dal manoscritto
Magliabechiano CI. XXXVIII, 127 (XIV secolo) pubblicato da P.
Villari, Antiche leggende e tradizioni che illustrano la
Divina Commedia, in «Annali delle università toscane», 8
(1886), pp. 77-80, citazione a p. 78.
52
Cfr. Ortalli, «...pingantur in Palatio...» cit.
L'analogia tra pittura infamante e rappresentazione dei
condannati alle pene eterne è sottolineata da Chiara Frugoni:
«Il potere delle immagini non si limitava all'ambito della
fede: dalla seconda metà del Duecento, in caso di contumacia, i
traditori e i falsari cominciarono ad essere dipinti bruciati,
più spesso impiccati a testa in giù, anche sui muri dei più
importanti edifici pubblici comunali, con il corredo di epigrafi
che indicavano il nome del reo e lo coprivano di insulti. Una
punizione particolarmente efficace la pittura infamante, perché
coinvolgeva nella vergogna e nella riprovazione altrui tutte le
persone con le quali il condannato per immagine aveva rapporti.
E di nuovo a segnalare lo scambio continuo fra realtà, immagine
dipinta, religiosa e laica, ricordo la sequenza degli impiccati,
uomini e donne, alcuni a testa in giù, nell'Inferno della
Cappella Scrovegni a Padova di Giotto, effigiati secondo la
prassi della pittura infamante»: A. e C. Frugoni, Storia
di un giorno in una città medievale, Laterza, Roma-Bari
1997, pp. 86-87.
53
Cfr. Apocalisse, 20, 1-2: «Et vidi angelum descendentem de caelo
habentem clavem abyssi et catenam magnam in manu sua, et
adprehendit draconem serpentem antiquum qui est diabolus et
Satanas et ligavit eum per annos mille» («Poi vidi un angelo
che scendeva dal cielo, tenendo in mano la chiave dell'abisso e
una grande catena. Egli afferrò il dragone, l'antico serpente,
che è il diavolo, Satana, e lo incatenò per mille anni»).
54
Proprio vicino ai piedi
di Satana vi è una iscrizione illeggibile:...vane ene gad...;
e sembrerebbe, ma l'affresco è molto rovinato, che lo
stesso demone stia schiacciando sotto i propri artigli un altro
dannato.
55
Le Visioni di santa Francesca Romana furono
scritte in dialetto romanesco nel XV secolo dal prete Giovanni
Mariotti, confessore di Francesca; il testo riporta le visioni
dell'aldilà avute dalla santa (morta il 9 marzo 1440) nel corso
della propria esistenza. Riporto in questa sede brani tratti
dall'edizione di M. Pelaez, Visioni di santa Francesca
Romana, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria»,
XIV (1891), in particolare pp. 371-373.
56
Ivi, p. 380. La visione dell'inferno di santa Francesca
Romana riporta anche l'immagine di un enorme Satana legato con
catene infuocate, ma questa immagine, presente nel Giudizio di
Sant'Agata de' Goti, è assai diffusa nelle rappresentazioni
dell'inferno medievali. Non si intende in questa sede ipotizzare
una stretta relazione tra l'affresco della chiesa della SS.
Annunziata e le Visioni della santa, quanto piuttosto
segnalare due testimonianze di differente natura - una
iconografica, l'altra letteraria - che ci hanno tramandato in
diversa forma elementi identici dell'immaginario medievale.
57
II sodomita punito allo spiedo compare anche nel mosaico
del Battistero di S. Giovanni a Firenze, a Bologna in S.
Petronio, a Padova nella Cappella degli Scrovegni, a Pisa nel
Camposanto, ed anche in questi casi non è indicata in modo
specifico la sua colpa. Santa Francesca Romana nelle sue visioni
dell'inferno giustificava così la pena dei sodomiti: «[...]
vide nello profondo et terribile luoco dello inferno, lanime
delli miseri nomini et femine collo peccato sodomitico,
et collo peccato contra natura: le quale anime avevano
grannissimo cruciato, et in quello muodo et forma che avevano
operato tale scelerato vitio, in quello medesmo muodo li demonii
operavano con esse anime de homini et de femine. Et puoi li
demonii pigliavano le diete misere anime, et con pali de ferro
ad muodo de granni spiti infocati, spitavano et sfonnavano le
dolorose anime incomensando dalla parte de socto, et regessivano
li dicti pali alla bocha de ciasche anima...»: Visioni di
santa Francesca Romana, cit., pp. 375-376.
58
Le pene purificatrici devono avere luogo nel tempo che
intercorre tra il giudizio particolare (dopo la morte) e quello
finale, dopo il quale non ci sarà che inferno o paradiso
(Agostino, De civitate Dei, XXI, 13; PL, XLI, col. 728).
Per san Tommaso d'Aquino (Summa Theologiae, suppl., q. 70
ter e 71) la misura e la durata della pena sono in proporzione
al peccato, ma possono essere mitigate dai suffragi della
Chiesa. La pena maggiore per le anime del purgatorio è il
rinvio della visione di Dio.
59
«Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi, / la donna
ch'io avea trovata sola / sopra mevidi, e dicea: - Tiemmi,
tiemmi! / Tratto m'avea nel fiume infin la gola, / e tirandosi
me dietro sengiva / sovresso l'acqua lieve come scola. / Quando
fui presso a la beata riva / Asperges me sì dolcemente
udissi, / che noi so rimembrar, non ch'io lo scriva. / La bella
donna ne le braccia aprissi; / abbracciommi la testa e mi
sommerse / ove convenne ch'io l'acqua inghiottissi»: Purgatorio,
XXXII, w. 91-102.
60
La tradizione prevede due settori per il limbo: il limbo
dei bambini non battezzati e morti macchiati del peccato
originale, e il limbo dei Padri, quest'ultimo chiuso dopo la
discesa di Cristo agli inferi e la liberazione di tutti coloro
che vi risiedevano.
61
II tema è rappresentato nel santuario della Madonna dei
Bisognosi a Pereto (L'Aquila), nella chiesa di S. Maria in Foro
Claudio a Ventaroli (Caserta), nella chiesa di S. Francesco a
Leonessa (Rieti), nella cattedrale di Sermoneta (Latina), e in
frammenti nella chiesa di S. Maria Assunta ad Assergi
(L'Aquila). Tutti gli affreschi risalgono al XV secolo.
Sull'affresco di Pereto si vedano Baschet, Les Justices cit.,
pp. 380-383, 660-661; A. Calvani, Santuario della Madonna dei
Bisognosi, Roma 1980. Per gli affreschi di Leonessa, Pereto
e Sermoneta cfr. J. Baschet, I sette peccati capitali
e le loro punizioni nell'iconografia medievale, in C.
Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei
peccati nel Medioevo, Einaudi, Torino 2000, pp. 225-260, in
particolare pp. 246-247. Sui cicli abruzzesi si vedano: E. Carli,
Affreschi benedettini del secolo XIII in Abruzzo, in «Le
arti», 1 (1938), pp. 442-463; G. Rasetti, Il Giudizio
universale in arte e la pittura medievale abruzzese, Tempo
nostro, Pescara 1935.
62
Giordano da Pisa, Prediche
inedite (dal ms. Laurenziano. Acquisti e Doni 290), a cura
di C. Iannella, ETS, Pisa 1997, pp. 52-53.
63
Bernardino da Siena, Le
prediche volgari, edite dal prof. Padre Ciro Cannarozzi,
Editrice fiorentina, Pistoia 1934, voi. I, p. 98.
64
Ibid.
65
Riporto gli indici delle Rubriche del Confessionale, che
si definisce come un manuale, un prontuario per i confessori
meno esperti («Simpliciores et minus expertos confessores de
modo audiendi confessiones informare cupiens. Aliquid in hoc
tractatu ad horum instructionem sub compendio posui»): «Rubrice
prime partis: I De admnotionibus generalibus; II De luxuria; III
De avaritia; IV De restitutionibus faciendis; V De superbia; VI
De accidia; VII De invidia; VIII De ira; IX De gula; X De
quibusdam peccatis lingue et peccato de mendaciis; XI De
giuramento et periuro; XII De murmure et detractione
susurratione et derisione; XIII De sortilegiis; XIIII De
scandalo; XV De votorum violatione. [...] Rubrice secunde partis:
I Ad episcopos et alios prelatos; II Ad clericos et beneficiatos;
III Ad sacerdotes parrochiales et eorum vicarios et audientes
confessiones; IV Ad religiosos et claustrales; V Ad iudices; VI
Ad advocatos et procuratores; VII Ad medicos; VIII Ad doctores
et magistros; IX Ad principes et alios nobiles; X Ad coniugatos;
XI Ad mercatores et burgenses; XII Ad artifices et mechanicos;
XIII Ad rusticos et agricolas; XIV Ad laboratores» (i brani qui
citati sono traditi dal manoscritto della Biblioteca Antoniana
di Padova, Cod. 367, scaff. XVII, c. 303r, e in parte pubblicati
da J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante. Saggi
sul lavoro e la cultura nel Medioevo, Einaudi, Torino 1977,
p. 149). Per la tradizione manoscritta e a stampa di questo
trattato si veda T. Kaeppeli, Scriptores Ordinis
Praedicatorum Medii Aevi, vol. II, ad S. Sabinae Ecclesiam
[poi Istituto storico domenicano], Romae 1975, pp. 433-436; voi.
IV, Istituto storico domenicano, Roma 1993, pp. 151-152. Per
quanto riguarda gli studi sui manuali per confessori si vedano
R. Rusconi, Ordinate confiteri. La confessione dei peccati nelle Summae de Casibus e nei manuali per
confessori (metà XII inizio XIV
secolo),
in
L'aveu: antiquité et moyen àge, Collection de l'École
Francaise de Rome, Rome 1986, pp. 297- 313; P Michaud-Quantin, Sommes
de casuistique et manuels de confession au Moyen Age, Nauwelaerts,
Louvain-Montreal 1962; L. Boyle, The Summa Confessorum of ]ohn
of Freiburg and the Popularization of the Moral Teaching of
Saint Thomas and Some of bis Contemporaries, in St.
Thomas Aquinas, 1274-1974. Commemorative
Studies, a cura di A.
Maurer e E. Gilson, Pontificai Institute of Mediaeval Studies,
Toronto 1974, voi. I, pp. 245-268.
66
Scrive Jacques Le Goff che «I manuali dei confessori
sono dei buoni testimoni della presa di coscienza della
professione da parte di coloro che la esercitano, poiché
riflettono la pressione del loro ambiente sulla Chiesa, e sono
stati, di ritorno, uno dei principali mezzi di formazione della
coscienza professionale degli uomini del Medioevo, a partire dal
secolo XIII»: Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del
mercante cit., p. 140.
67
Si veda: Pane e potere. Istituzioni e società in
Italia dal Medioevo all'Età moderna, a cura di V Franco, A.
Lanconelli, M.A. Quesada, Ministero per i beni culturali e
ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma 1991.
68
«Anche vide essa beata ancilla de Cristo le dolorose
anime delli iudici, li quali dierono false sententie: erano
messe in uno tino grande de oro & de argento liquefacto. Et
li demonii con certi incini infocati acerbissimi, colli quali
cacciavano le meschine anime, et gittavanolle ad altri demonii
sopre de ciò deputati in forma de leoni, & da essi erano
crudelissimamente laniate, tucte tenendo le mitre infocate nelli
loro capi»: Visioni di santa Francesca Romana, cit., pp.
388-389.
69
La malattia era vista come una metafora del peccato ed il
malato, prima di essere curato, doveva essere confessato,
comunicato e solo dopo queste due operazioni poteva essere
accudito dal personale dell'ospedale; si cercava in sostanza di
curare la salvezza dell'anima più che la salute dei corpi. Cfr.
J. Agrimi, C. Crisciani, Malato, medico e medicina nel
Medioevo, Loescher, Torino 1980, pp. 207-208.
70
«... vide le misere anime delli medici, le quale stavano
nello luoco de socto [nella parte più profonda dell'inferno],
& tenevano li piedi in alto et li loro capi a basso. &
li demonii con certi grappi le stracciavano duramente, et
stavano infra certe piaste de fierro infocate dalle quale
avevano grande tormento; et tale pena avevano per li libri che
avevano usati, et per lo homicidio commesso, che per salvare la
matre, non curano de occidere la creatura ne l'utero materno. Et
anche
delli
homicidii facti malitiosamente, anche per la transgressione
ecclesiastica, che medicaro li infirmi
prima che fussino confessati & reconciliati. Ma, per lo
peccato della ignorantia, li erano cacciati
li occhi dalli demonii, & per la vana speransa che abero de
sanare li infermi, et però non li fecero
comunicare, né confessare, li era cacciato lo core, & era
dato ad certi demonii in forma de cani
dalli quali era molto stracciato. Per lo peccato pomposo dello
vestire erano copierti dalla fiamma
dello fuoco non lucente ma tenebroso, come è dicto nello
principio dello presente tractato. Ma per lo peccato della cupidità li era messo nelle loro gole oro
con argento liquefacto, sempre blasfemando, &
ciascheuna delle diete misere anime aveva dallo demonio tale
improperio: Anima dolente che si stata così accecata, lo tio studio fetente, per lo
quale te si avenenata, ate facta ingannare alla toa sensualità,
or sta in questi tormenti, & non tenne lamentare»: Visioni
di santa Francesca Romana, cit., p. 396.
71
«Vide anche essa
beata ancilla de Cristo le poverecte anime delli speciali, le
quale avevano pena per la ignorantia & per la cupidità, corno è sopra dicto
delli medici. Anche erano messe in uno tino pieno de molta
immunditia, la quale pena avevano per le false medicine date
& non bene facte. Et li demonii con certi grappi le
cacciavano dello dicto tino con grande detratio; anche certi
demonii li cacciavano lo core, & puoi lo davano ad altri
demonii in forma de cani arrabiati, & da essi era
stracciato. & ciascheuna delle diete meschine anime aveva
dallo demonio tale improperio: O anima maledecta che te
si lassata ingannare, che non ai auto abedimento nello tuo molto
malefare, pati pena & tormento nello fuoco ad cruciare»:
ivi, p. 397.
72
«Anche vide essa
beata Francesca dieta le misere anime delli tavernari, le quale
stavano nello luoco de socto; & erano messe in tre tini, delli quali uno ne era
pieno de giaccio, l'altro de vino ardente, & l'altro
pieno de aceto & de altre cose. Et per lo peccato de mectere
l'acqua nello vino era messa
ciascheuna delle diete misere anime nello tino dello giaccio
[...] et molto tormentata li era messo dalli demonii oro con
argento liquefacto, la quale pena aveva per cupidità, et erali
dicto tale improperio: O anima sconsolata che te si lassata
desertare, per la toa golisitate te si facta ingannare, colli
demonii te stai con pene & tormenti che non mancano mai»:
ivi, p. 397.
73
«Vide anche essa
beata Francesca le misere anime delli macellari, le quale
avevano grandi tormenti, ma in particularità era posta la misera anima nella belancia,
da una parte tenendo alla gola
molti uncini ferrei infocati, pendendo essa meschina anima nelli
incini; & dall'altra parte della
belancia era grande peso, ad muodo de macera: & tale pena
avea per li peccati generali che commise.
Anche li demonii li davano per la faccia ad muodo de trippe
fracide, piene de molte miserie
& pucce & de orrebile abominatione. La quale pena li era
data perché vendeva la carne trista
per bona, cioè lo peco per lo castrone & simili fraudationi.
Anche li demonii la incicchiavano [tagliavano] sopre la
bancha ad muodo de carne per fare le salcicce, et tale pena li
era data per l'altri peccati
che commise in tale arte dello maciello, & aveva dallo
demonio tale improperio: Anima che si trista, tanto ai
sequitato lo mundo, non tenne si retracta, lo honore de Dio ai
desfacto,
sitte aducta ad tale passo
che non tenne puoi aiutare, ora pati pene & tormenti al
presente & sempre mai»: ivi, p. 398.
74
Visio Thurkilli,
relatore, ut videtur, Radulpho de Coggeshall, a
cura di P.G. Schmidt, Teubner, Leipzig 1978, p. 28.
75
Ivi, pp. 22-27.
76
L'Anonimo del
Codice bolognese 2751, in Imitazioni dantesche di quattrocentisti meridionali,
a cura di A.
Altamura e P. Basile, Società editrice napoletana, Napoli 1976,
pp. 7-27.
77
Ricordo in proposito il pensiero di Bernardino da Siena che,
predicando su «come debba ministrare
iustizia chi ha offizio», individua tra i nemici della
giustizia, che i prìncipi debbono sconfiggere,
Afalsus iudex in consistono, ilfraudulentus mercator in foro,
il mendax in artifitio: Bernardino
da Siena, Prediche volgari sul Campo di Siena, 1427, a
cura di C. Delcorno, Rusconi, Milano 1989, pp. 710, 716.
78
II tema della
giustizia e dei suoi diversi esiti è stato tradotto anche in
immagini, raffigurato su un capitello della torre della Ghirlandina, a Modena. In questo
compaiono un giudice giusto, incoronato da un angelo; un
giudice iniquo nell'atto di ricevere denaro da un ricco; un
giudice tentato, fiancheggiato da un uomo che gli offre delle monete
(l'iscrizione recita: Offert pecuniam per falsa sententia) e da
un uomo povero - è scalzo - che si dispera (stringe il pugno
sulla guancia) a
causa del giudice corrotto: A. Barbero, C. Frugoni, Medioevo.
Storia di voci, racconto di immagini, Laterza,
Roma-Bari 1999, pp. 250-254.
79
A. Pratesi, Genesi
e forme del documento medievale, Jouvence, Roma 1987, pp.
53-54.
80
San Bernardino da
Siena, ad esempio, accusava i notai di fare da sensali agli
usurai: «[L'usuraio] agevolmente la guadagna; grande utilità multiplica ed è
guadagno certano; guadagna con poca fatica; niente ve ne dura. Chi la dura? El notaio che
fa el contratto usuraio; el sensale»: Bernardino da Siena, Le prediche volgari, edite
dal prof. Padre Ciro Cannarozzi, cit., vol. I, p. 82.
81
Cfr. J. Le Goff, La
borsa e la vita. Dall'usuraio al banchiere, Laterza,
Roma-Bari 1987, pp. 41-58.
82
C. Rivals in II
mulino, L'avventura del pane quotidiano, in «Storia e
Dossier», n. 7 (1987),
pp. 47-49.
83
L. Chiappa Mauri,
ivi, pp. 61-64.
84
C. Rivals, ivi, pp.
47-49.
85
Cfr. C. Ginzburg, Il
formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del '500, Einaudi,
Torino 1999, p. 138, e ripreso anche da C. Rivals cit.,
nota 34.
86
Cfr. Pane e potere cit.,
pp. 31-33.
87
Cfr. H.C. Peyer, Viaggiare
nel Medioevo. Dall'ospitalità alla locanda, Laterza,
Roma-Bari 1997, pp. 252-262.
88
Cfr. Visio
Thurkilli cit., pp. 26-27.
89
Bernardino da Siena, Prediche
volgari sul Campo di Siena, cit., pp. 315-316.
90
L'Anonimo del
Codice bolognese 2751, cit.,
p. 22.
91
Bernardino da Siena, Le
prediche volgari, edite dal prof. Padre Ciro Cannarozzi, cit.,
pp. 79-80. Nel Vangelo di Matteo (21, 12-13) coloro che vengono cacciati dal
tempio sono i mercanti
ed i cambiavalute, accusati di essere ladri. In questa predica
Bernardino da Siena identifica le due categorie
professionali semplicemente come usurai.
92
Per la condanna del
peccato di usura si veda Le Goff, La borsa e la vita cit.,
pp. 11-77.
93
La lunga chioma
bionda è uno dei principali attributi della Maddalena; san
Bernardino da Siena in più occasioni stigmatizza la capigliatura della donna come
principale mezzo di istigazione
al peccato: «[...] Primo peccato ch'ella commise si è ne'
fatti del mondo, cioè mostresi di piacere più al mondo che a
Dio, e di parere più bella al mondo che a Dio [...] modo di
peccare si fu co' capegli. Imperò ch'ell'aveva così bel capo e
sempre avea che fare di stare a imbiondare, e di stare
al sole a seccare: e nulla cosa di vanità non lassa di fare»:
Bernardino da Siena, Le prediche volgari inedite. Virente
1424-1425 - Siena 1425, a
cura del P Dionisio Pacetti O.F.M., Cantagalli,
Siena 1935 [Quaresimale di Firenze, 1425],
voi. II, pp. 352-353; «In che Maria Maddalena era peccatrice
[...] La prima cosa, collo imbrattare el volto. [...] El
secondo, colla bocca, in baciare, in cantare, in ragionare e
parlare vanamente e disonestamente. El terzo, co' capelli, tanto
belli, che aggiugnevano
infino a terra. La maggiore vanità che comunque abbi la donna
sono e capelli. Adunque
è maggior peccato. Ogni capello era una catena a tirare lei e
l'altre allo inferno. Peccato grande!»: Bernardino da Siena, Le prediche volgari, edite dal
prof. Padre Ciro Cannarozzi, cit., p.
144; lo stesso Bernardino spiega la metamorfosi della Maddalena
dopo l'incontro con Cristo: «con
molte lagrime, piangendo, cominciò a darsi per la casa, e
ardere e capelli vani che forse si riteneva,
e gittare via la biacca e gli altri imbratti e vanità, e
piangendo tutti e peccati fatti dal primo dì infino
all'ultimo...»: ivi, p. 148.
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